egli anni Novanta, quando ero una teenager robusta — con un guardaroba discutibile — e il mono ciglio, c’erano tre cose che avrebbero tirato su di morale la mia autostima: lo zaino di Mandarina Duck, le Superga e la Vespa.
Avevo i primi due, guadagnati dopo aver preso i miei per sfinimento, ma la terza, quella sarebbe stata durissima.
La Vespa che desideravo — rigorosamente bianca — era a tutti gli effetti un veicolo destinato a marciare su strada, un luogo pericoloso dove la gente distratta provoca incidenti.
“Non te la compro.”
“Ma papà, io sono responsabile. Starò attenta, te lo prometto.”
“Ho detto di no.”
“Ti prego! Anche Paola ce l’ha.”
“Si vede che suo padre si fida…”
“E tu no?”
“No, io no.”
“Ecco, resterò l’unica sfigata senza Vespa.”
“Sopravviverai…”
“No: ho quattordici anni.”
“Va bene.”
Va bene?
“Se verrai promossa, sarà tua.”
Allora non sapevo che questa cosa della Vespa sarebbe diventata una sorta di maledizione, al contrario, la proposta mi era sembrata ragionevole: dovevo passare un po’ di tempo sui libri per guadagnarmi il feticcio adolescenziale che mi avrebbe concesso un bonus di fiducia in me stessa. Peccato che la scuola non fosse il mio forte. O meglio, la scuola che avevo scelto per accontentare i miei non era il mio forte. Cosa mi importava della ragioneria? Della partita doppia, di Amaduzzi? Io amavo cantare, ballare, recitare e salvare gli animali… sì okay, lo ammetto, forse ero un po’ confusa, ma da bambina, non ho mai detto: “da grande farò il ragioniere.”
A ogni modo, nella vita ci si adatta, specie se hai una compagna di viaggio che versa nella tua stessa situazione. Paola, la mia migliore amica, amava dipingere e aveva una predisposizione naturale per il linguaggio dei segni, ma seduta vicina a me, sui banchi vicino alla cattedra, completava la formazione Fantozzi-Filini al femminile.
La nostra inattitudine allo studio non era dettata da una questione personale nei confronti dello stesso, era un modo per gridare al mondo che ci sentivamo sbagliate nel posto sbagliato. Una tipica forma di ribellione adolescenziale.
Ma Paola la Vespa ce l’aveva, ero io che dovevo sudarmela. Non sudai, venni bocciata e i miei si arrabbiarono molto.
Mi sarei impegnata di più, avrei fatto sul serio, avrei dimostrato alla mia famiglia di essere una ragazza responsabile.
Decisi che per mostrarmi collaborativa nei confronti della causa, era necessario rinunciare a qualcosa. Non ci sarebbero più stati pomeriggi spesi in compagnia dei miei film, mentre mamma e papà lavoravano, e non avrei più giocato a Mario Bros, anche ai pop corn avrei detto addio, ma in quel periodo tutto si fece più buio, e mi ammalai.
Nom mi importava nulla della Vespa messa in palio per la mia promozione, quella perenne insoddisfazione provocatami da un mondo che sembrava non accorgersi della mia esistenza, invece di farmi urlare, agitare le braccia e fare segnali di fumo, mi chiuse in una stanza con le mie insicurezze. Fu allora che cominciai a scrivere e fu allora che iniziai a servirmi dell’ironia: per ridere di ciò che mi faceva piangere. Ero la prima a esibire i miei difetti, mi prendevo in giro da sola. Era una strategia che avevo messo a punto per limitare la sofferenza causata dai commenti poco carini dei miei coetanei, che di fronte alla mie battute, ridevano senza aggiungere altro: avevo già detto tutto io.
Ma anche quell’anno, ridendo e scherzando, mi presi tre materie da recuperare a settembre: storia, scienze e geografia.
“Enrica, ti hanno rimandato in tre materie, tre materie in cui sarebbe bastato studiare e tu…”
“Mamma, mi sembra chiaro che non ci troviamo di fronte a un problema di apprendimento…”
È che sono una ribelle e voglio fare il veterinario. Dai diglielo.
“Quindi ti prometto che studierò.”
A settembre passai, e il giorno prima dell’inizio della scuola, mio padre rinnovò la sua intenzione di regalarmi il feticcio che desideravo, se fossi stata promossa.
Scartai l’ipotesi che fosse la Vespa a portarmi sf**a, ma alla fine del terzo anno, dovetti ricredermi.
Quello che doveva rappresentare la svolta, si trasformò nel più catastrofico di tutti. Un anno a effetto Domino: lo definirei così. La legge di Murphy applicata: se qualcosa può andare male, lo farà e nel mio caso, andò malissimo.
Fu una serie di eventi a far degenerare le cose. Le difficoltà di coppia dei miei genitori, una storia finita, il buio alimentare. E i capelli crespi, il colorito tangerine a novembre — frutto di ripetute sedute abbronzanti con autoabbronzante — e una folta peluria che incorniciava la mia arcata superiore fecero il resto.
Forse avrei dovuto sforzarmi di far sentire le mie ragioni, di dare voce al mio sconforto esistenziale, ma gli adolescenti sono orgogliosi, introversi, testardi e io non ero diversa dagli altri.
Venni bocciata di nuovo e i miei, contrariamente a quanto mi aspettassi, nonostante l’ennesima delusione, non si arrabbiarono. Mio padre decise che era giunto il momento di affrontare il problema.
“Enrica, sappiamo tutti e due che non si tratta di capacità, ma di impegno. Se non ti diplomi, finirai a ricoprire una mansione infelice, finirai per accontentarti, invece di realizzarti come meriti.”
Lo guardavo incredula mentre pronunciava quelle parole, non erano certo quelle di un rimprovero severo che avrei meritato, e questo suo prendermi in contropiede mi aveva fatto capire che non era la scuola il vero problema, e nemmeno la Vespa che non avevo; le materie che avevo sempre detestato senza un vero perché, erano le sole che mi avrebbero concesso l’occasione di dimostrare il mio valore e che un buon rendimento scolastico mi avrebbe fornito quell’autostima che stavo cercando.
Gli diedi la mano, gli feci una promessa:
“Da ora in poi, ti prometto che sarai fiero di me.”
“Davvero? Posso fidarmi?”
“Davvero!”
“Se manterrai la parola, ti comprerò la Vespa.”
“No ti prego no. La Vespa basta, non la voglio più.”
Mantenni la promessa e tutto cambiò.
Io e Paola ci diplomammo nello stesso anno.
E ciò che in passato avevo definito come il feticcio della sf**a, oggi lo vedo come un simbolo di rinascita. Non credo che l’intenzione dei miei fosse quella di farmi capire che la felicità non risiede nelle cose materiali — me lo avevano già insegnato. Ciò che ho imparato dai miei fallimenti scolastici, di cui non vado particolarmente fiera, è che seppure la vita sia fatta di difficoltà, arrendersi è da vigliacchi. È necessario impegnarsi per ottenere ciò che si desidera e non è mai troppo tardi per farlo. A volte sono proprio le situazioni peggiori a tirare fuori il meglio di noi, altre volte una Vespa.
Illustrazione: Valeria Terranova