redo che se non avessi vissuto negli anni ’80 oggi non sarei quella che sono. Colpa e merito sono della TV di quel periodo: quando Sky era solo un’idea. I cartoni animati potevo guardarli solo dalle quattro alle sei del pomeriggio su Bim Bum Bam con Paolo Bonolis – che all’epoca non sapeva nulla del Senso Della Vita – e Pollon era sul podio. Quel: “Sembra talco, ma non è, sembra talco ma non è, serve a darti l’allegria. Se lo mangi o lo respiri ti dà subito l’allegria” mica lo sapevo fosse cocaina. Canticchiavo la canzone e nessuno ci ha mai fatto caso. I cartoni animati di quegli anni avevano un comune denominatore: incentivare lo sport. Mila e Shiro, Holly e Benji, Jenny la tennista, Hilary, Tutti in campo con Lotti e Palla al centro per Rudi. E fu la volta in cui mi cimentai con la pallavolo, il calcio, il tennis, la ritmica e il golf. Ero così portata che oggi nuoto e faccio cross-fit, ma non importa: c’era un messaggio motivazionale. E c’era anche un messaggio razionale: “non ti credere che solo perché siamo in un cartone animato la sfiga non esiste.” Remi: orfano e buttato in mezzo a una strada insieme a una scimmietta. Candy Candy: abbandonata sotto la neve. Georgie: figlia di un galeotto. E anche se ti chiamavi Kiss Me Licia e ti fidanzavi con il cantante di una Band non era detto che fosse tutto rose e viole.
La protagonista era senza mamma e viveva con il padre Marrabbio di nome e di fatto. Ma non solo: si era pure aggiustata con sto’ disgraziato dai capelli bicolor – Forza Roma! – senza genitori che viveva con il fratellino e il gatto Giuliano di novanta chili. Mai na’ gioia. Eppure, quando finiva Bim Bum Bam con una panoramica su Gardaland, avevo ancora bisogno di input: le serie televisive.
C’era un bimbo afroamericano dal musetto simpatico, orfano anche lui – un’epidemia – che si chiamava Arnold. Il signor Drummond lo aveva tolto dalla strada insieme al fratello Willis per offrirgli una nuova famiglia a Manhattan e la famosa battuta: “Che cavolo stai dicendo Willis?” che conoscono tutti. E facendo zapping, cominciavo a farmi un’idea di come sarebbe stata la mia vita da adulta. Avrei diviso la casa con un paio di amici come in Tre cuori in affitto, e avrei comprato una macchina, ma non una qualunque. Perennemente indecisa tra una Super Car con Keith come optional e una Ferrari 308 GTS con dentro Magnum P.I. Già allora avevo capito che non sarei stata come Jamie Sommers, La donna bionica, e che non avrei mai flirtato con L’uomo da sei milioni di dollari, ma avrei sempre potuto contare sulle forze dell’ordine: I Chips. Il fatto che avessero il nome delle patatine era poco incoraggiante, e infatti non erano la sola opzione disponibile, c’erano anche Starsky & Hutch, Sonny e Rico di Miami Vice, Tony Baretta e pappagallo, e il mio preferito: T.J. Hooker, perché l’uniforme scura aveva contributo a riscattare il suo ruolo di sex symbol che la tutina gialla attillata di Star Trek aveva inevitabilmente compromesso. Ma il pericolo non era solo per strada, a volte gli attacchi venivano pure dall’alto. Non tutti gli alieni venivano in pace come Mork che viveva da Mindy, I Visitors volevano mangiarci. E non erano i soli a farmi paura, anche JR di Dallas era bello impegnativo.
La mia famiglia come sarebbe stata? Una Bradford? Troppi figli. Otto sotto un tetto? Affollato. Genitori in blue Jeans? Poteva andare. Ma erano I Robinson il mio ideale di famiglia perfetta – prima che Bill Cosby lo frantumasse mettendosi a molestare ogni essere vivente di sesso femminile.
La sera, con la testa piena di pensieri, andavo a dormire continuando a immaginare la mia vita nel futuro. Forse I Jefferson erano più alla mia portata: sarei stata anch’io una Weezie, sposata con un ometto buffo e impertinente, mamma di un figlio di nome Lionel e con una cameriera spiritosa di nome Florence. E oggi posso dire che è andata anche meglio di quanto sperassi.
Non vivo a New York, mio marito non ha sette lavanderie e non ho neanche la cameriera, ma ho avuto gli anni ’80: un serbatoio di voglia di vivere e di positività.
Illustrazione Valeria Terranova