ew York non è proprio dietro l’angolo. Come prima trasferta avevo immaginato qualcosa di più limitrofo, ma riuscirò a gestire tutto.
Forse. Più o meno.
Dopo queste considerazioni, ho pensato al tappeto. Arrotolato, fissato con lo scotch, caricato sulle spalle e gettato con disprezzo nel bagagliaio dell’auto. Se invece di consegnarlo in lavanderia, avessi optato per la discarica, avrei dato l’idea della moglie che cerca di sbarazzarsi del cadavere del marito: è stato eccitante.
E dopo il tappeto, è arrivato tutto il resto.
“Ciao Michi.”
“Sei strana: sputa il rospo.”
Così? Subito?
Allontano il telefono dall’orecchio e lo guardo con occhi sbarrati: come fa a saperlo? Mica può vedermi.
“Ti ricordi l’abito di Givenchy? Quello che avevi suggerito per la mia seconda uscita con Paolo?”
“Sì…”
“Ce l’hai ancora tu. Sono sicura di avertelo prestato per uno shooting fotografico e non è mai tornato a casa.”
Dio benedica quel vestito. È merito suo se sto giocando d’anticipo: Michi si sentirà terribilmente in colpa, dirà che è disposto a tutto pur di rimediare e io dirò che c’è solo una cosa da fare per avere il mio perdono: seguirmi a New York.
“Ma la serata è andata bene lo stesso, quindi?”
“Era il mio abito di Givenchy…”
“Lo cerco.”
“No. Devi farti perdonare adesso.” mi affretto ad aggiungere.
“Non è detto che lo abbia perso, devo solo trovare il tempo di cercarlo…”
“Sono passati sei mesi.” puntualizzo.
“Okay: che devo fare?” chiede sfinito.
“Vieni a New York con me!”
“Che cosa?”
“Naturalmente il volo devi pagarlo da solo: l’azienda non può coprire i tuoi costi…”
“Sei impazzita? Io pensavo a una cosa tipo: portami a Gardaland anche se so che lo detesti…”
“Okay, il biglietto aereo lo pago e pago anche l’intera trasferta, ma ti prego, ti supplico: vieni con me!”
“Eva: ho un lavoro anch’io.”
“Ma non sei mai stato a New York, potrai fare un sacco di foto di street style, quando ti ricapita?”
“Non posso.”
Non lo ha detto davvero.
“Perché?” chiedo desolata.
“Ho degli impegni già presi, non posso mollare tutto e venire con te.”
Sapevo che la tartaruga si sarebbe messa tra i piedi.
“È Raffaello vero?”
“C’era anche quando ti ho portato a Cortina…”
“Sì lo so.”
Ho esaurito le cartucce.
“Vuoi vedere come me la cavo da sola?”
chiedo in tono provocatorio. “È per questo che non vieni con me?”
“No, non è per questo: non ho dubbi sul fatto che te la caverai, ma tesoro, ho già dei servizi programmati per la prossima settimana e non posso disdire.”
Per un attimo mi sono sentita come Davide.
“Capisco. Scusami per aver insistito.”
“Dimmi come stai…”
“Sono eccitata, terrorizzata, nervosa. Devo organizzare un sacco di cose prima di partire…e poi ci si è messo pure il test di gravidanza…”
“Mi siedo.”
Sento uno strano silenzio: non sarà svenuto spero.
“Michi ci sei?” chiedo preoccupata.
“Ci sono.” mormora. “Puoi ripetere? Hai fatto un test di gravidanza?”
“Non io! La Lego Friend!”
“E tu come lo sai?”
“L’ho trovata in bella vista sulla mensola dell’ingresso del loro nido d’amore…”
“Era positivo?”
“Non lo so, l’ho visto di sfuggita. Mi ci vedi a chiedere a quell’essere insignificante: ‘scusa, aspetti un bambino?’”
Ora è svenuto davvero.
“Di’ qualcosa, ti prego…”
“Aspetta: può darsi che non sia incinta. Non ti hanno mai detto di non fasciarti la testa prima di romperla?”
“Sì me lo hanno detto, ma ho appena concluso la mia seduta individuale di training autogeno per superare la cosa…”
“E ha funzionato?” mi interrompe.
“Che domande… Certo che non ha funzionato, ma devo convincermi che la mia vita andrà avanti indipendentemente dalle scelte del mio ex marito. Se hanno deciso di avere un bambino…”
“Quindi la cosa non ti riguarda?”
Odio quando mi interrompe, specie durante i miei discorsi auto-motivazionali: mi fa perdere la concentrazione.
“Okay… Ammetto di aver immaginato una proiezione futura in cui Sofia teneva per mano la sorellastra, mente io ero rinchiusa in una clinica psichiatrica, ma no: non mi riguarda. A conti fatti, bambino o no, tra me e Davide è finita, questa è solo l’ennesima conferma.”
Anche adesso non dice niente, ma che c’è da dire? Vorrei solo che fosse qui ad abbracciarmi.
“Eva…” mormora.
“Ci hai ripensato? Vieni con me a New York?”
“Sai che non posso, ma sono fiero di te, sono molto fiero di te.”
Suona come un premio di consolazione, ma sono felice di sentirglielo dire.
“Grazie…”
“E comunque, dovresti parlarne a Davide.”
“Non posso: significherebbe investire altro tempo in qualcosa che non mi riguarda.”
“Forse non riguarda te, ma riguarda Sofia…”
E ancora, il ruolo di donna e il ruolo di mamma faticano a trovare un equilibrio che consenta all’una e all’altra di arrivare a una soluzione dignitosa per gestire ciò che sta succedendo: Sofia non sta divorziando da suo padre.
“Come faccio?” chiedo disperata.
“Invitalo a prendere un caffè, parlagli del tuo lavoro, se ancora non hai avuto occasione di farlo, vedi che puoi scoprire sul presunto bambino in arrivo… Non si tratta solo di voi due…”
Perché l’uomo che amo di più è fidanzato con una tartaruga?
“Hai ragione…” mormoro.
“Coraggio. Io sono qui.”
Qui, in senso figurato, ma devo farmelo bastare.
Riattacco. Faccio scivolare il telefono sul tavolo e avrei voglia di sbatterci la testa.
Dovrei mettermi al lavoro, ma il cartoncino rigido, da cui cominciare per creare la collezione, è ancora bianco.
Nessuna idea, nessuna ispirazione.
Il discorso di Michele non lascia spazio alla spensieratezza, e io disegno accessori.
Okay, prima il dovere poi il piacere: prima chiamo Davide, poi mi metto su questo moodboard. Affondo la matita sul quaderno degli appunti: mi dà un’aria decisa. Poi, la lascio cadere e prendo il telefono come se non avessi altra scelta.
Messaggio. Meglio un messaggio.
“Ciao Davide, come stai?
Devo raccontarti del mio appuntamento di lavoro, sei libero a pranzo?”
Ho messo insieme tutto questo in dieci minuti, dopo aver cambiato parole su parole, controllato la sintassi e anche la punteggiatura — ed eliminato l’unico emoji che doveva essermi sfuggito.
Ho riflettuto parecchio sul ‘come stai?’ avrei voluto aggiungere e chi se ne frega?
Anche la parola ‘raccontarti’ è stata scelta con cura. Volevo una cosa tipo: ‘vengo in pace’, abboccherà più facilmente.
La tecnica ‘Carini e Coccolosi’ dei Pinguini di Madagascar potrebbe rivelarsi la più efficace.
Invio.
Più tardi, il cartoncino è ancora bianco e lui non ha ancora abboccato.
Continuo a fissare il vuoto, vorrei che Olivia facesse pipì sul pavimento per mettere fine al mio stato catatonico, ma all’improvviso, il telefono squilla: è lui.
Carina e coccolosa. Carina e coccolosa.
Faccio un bel respiro e dico:
“Pronto?”
Sto esagerando: ho la voce di una 144.
“Sono libero a pranzo, se vuoi ci vediamo da Floris.”
Mi piace Floris, adoro Floris.
“Sì, può andare.”
Ma prima che il mio tono glaciale si sciolga, aggiungo che avviserò sua madre per ritirare Sofia a scuola.
“All’una?”mi chiede.
“Ci vediamo lì.”
Riattacco. Chiamo Clara, mi accordo.
Guardo il moodboard inesistente che giace sul tavolo e prometto di tornare da lui appena possibile, poi controllo la mia immagine allo specchio: troppo rock. Mi cambio.
Dopo ventidue minuti, esco di casa con una nuova mise, un ritocco al trucco e la faccia di Bruce Lee in ‘Dalla Cina con furore’.
Una donna che sta per affrontare il suo ex marito — lo stesso ex marito da cui è stata tradita e umiliata — e vuole porsi in modo pacifico e accattivante, deve curare il look nei minimi dettagli. Ma quando ha poco tempo, il panico prende il sopravvento e si mette le prime cose che trova: nel mio caso, un paio di jeans, una camicia e il piumino di Moncler comprato a Cortina e mai indossato: sembro l’omino della Michelin.
Arrivo a destinazione con due minuti di anticipo, anche lui è già arrivato.
Lo vedo dall’altra parte della strada.
Bello, imbronciato, sexy — devo ammetterlo. Anche lui ha un piumino nero, da cui sbuca il solito paio di pantaloni in felpa, accompagnato dalla sneakers d’ordinanza: il suo modo di uscire in borghese.
Attraverso la strada facendo attenzione ai gatti neri e lo raggiungo.
“Ciao.” Dico togliendomi gli occhiali da sole.
“Ciao, entriamo?”
Apre la porta, mi cede il passo.
Floris è spettacolare durante il periodo natalizio, si possono comprare profumi e allestimenti per la casa, ma oggi credo che non ci sarà l’occasione. Raggiungiamo il bancone del bar che è sulla destra, Davide chiede a uno dei camerieri se il tavolo che ha riservato è pronto e veniamo accompagnati da un collega nella sala ristorante.
Ci sediamo e diamo uno sguardo al menu.
“Io prendo una Nizzarda, tu?”
“Petto di pello con verdure.”
Le solite cose che ordiniamo ogni volta che veniamo qui. E mentre in cucina preparano i nostri piatti, io rompo il ghiaccio.
“Sono stata dal mio ex capo ieri, mi ha dato un lavoro.”
“Il tuo vecchio lavoro?”
“Più o meno. Lavoro a progetto, da casa, per passare più tempo con Sofia, ma la mia collega è incinta e ci sono dei viaggi di lavoro già programmati che mi hanno assegnato.”
La parola ‘incinta’ non sembra averlo toccato, ma la sua espressione curiosa fa intendere che voglia sapere cosa viene dopo.
“Il tuo ragazzo che dice?”
Non credo che lo riguardi, ma sottolinearlo manderebbe all’aria il nostro incontro di pace.
“È felice per me…” dico come fosse la cosa più scontata del mondo.
“E mi hanno già assegnato la prima trasferta.”
“Dove? Milano?”
“No. New York.”
Il cameriere arriva interrompendo il discorso sul più bello, appoggia i piatti sul tavolo, e nonostante la sua intenzione sia quella di spiegarci cosa ci ha appena servito, le nostre facce fanno chiaramente capire che preferiamo essere lasciati soli.
“New York?” chiede basito.
Voleva mettermi un guinzaglio per caso? Impedirmi di varcare i confini del territorio nazionale?
“Sì, starò via per una settimana, è una grande opportunità. Sono brava nel mio lavoro, Olivia non lo ha mai dimenticato e per costruire una collezione ho bisogno di ispirazione.”
“Ma è dall’altra parte del mondo!”
Mi verrebbe da precisare che non gli ho chiesto di seguirmi.
“Sei sicura di volerci andare? È un grosso impegno…” continua.
“Ho sacrificato ogni domenica degli ultimi anni per seguirti, sono rimasta a guardarti da una tribuna mentre tiravi calci a un pallone: anche questo è stato un grande impegno, ma sono sopravvissuta, credo di poter affrontare un viaggio a New York.”
Devo aver esagerato con il sarcasmo, ma il mio ego sta facendo i salti di gioia.
“A Sofia non ci pensi?”
“Sofia è felice per me, non metterle in testa pensieri strani. Tu e il tuo modo subdolo di farmi sentire in colpa: ho un lavoro e questo non fa di me una cattiva madre.” dico furiosa.
Dichiaro ufficialmente chiuso il nostro incontro di pace. Il suo sguardo, le sue parole indisponenti, sono stanca dei suoi giochetti, avrei voglia di alzarmi dalla sedia, di mandarlo al diavolo, ma qualcosa mi frena: credo si tratti di quella parte di me che si era illusa che fosse cambiato. E mentre guardo la mia insalata come fosse il più amaro dei bocconi, lui mi stordisce con una frase:
“Complimenti per la delicatezza.”
Delicatezza?
“Come scusa?”
“Complimenti per la delicatezza: Sofia è una bambina, tra poco è Natale e tu stai partendo…”
“Tu vieni a parlarmi di delicatezza?”
Scoppio in una risata isterica.
“Proprio tu, che hai una compagna che lascia un test di gravidanza in bella vista sulla mensola dell’ingresso, vieni a parlarmi di delicatezza?”
I suoi occhi sbarrati, la bocca semi aperta, incapace di proferire parola, non lasciano dubbi: ho colpito nel segno e non posso fermarmi.
“Quando pensavi di dire a tua figlia che avete intenzione di avere un bambino? Come credi che la prenderà? O speravi che fossi io a pensare a tempi e modi più opportuni?”
Perché non dice niente? Il mio tono provocatorio dovrebbe innescare una reazione e invece sta lì, di fronte a me, in silenzio.
“Non è come pensi…” mormora.
“Sono qui: parla.”
“È stato un falso allarme.”
Non so dire come mi sento: sollevata, arrabbiata?
“È imbarazzante parlarne.” aggiunge.
Sono decisamente arrabbiata.
“Se è imbarazzante per te, figurati per me, ma qui non si parla di noi, si parla di Sofia e…”
“Non lo abbiamo cercato.” mi interrompe. “Andrea aveva un ritardo, ha fatto il test ed è risultato negativo, fine della storia.”
Ha trentatré anni, dovrebbe sapere come nascono i bambini e se non ha preso precauzioni per evitarlo, senza tenere conto delle conseguenze che avrebbero coinvolto anche Sofia, è grave, molto grave.”
“Fine della storia perché lei non è incinta, ma se lo fosse stata? Pensaci. Come lo avresti detto a tua figlia?”
“Avrei trovato il modo.”
“Bene. Sei adulto. Ma non azzardarti mai più a mettere in discussione il mio ruolo di madre, dai una revisionata al tuo di padre, piuttosto. E ora scusa, ma devo andare.”
Mi alzo davvero, lo lascio al tavolo da solo, mentre il cameriere, quasi divertito dalla scena imbarazzante, si precipita a recuperare il mio piumino in guardaroba.
Mi volto per un attimo, mi fermo a guardarlo e sembra così misero. Come ho potuto sposare un cretino del genere?
E siccome non credo che troverò una risposta nell’immediato futuro, mi infilo la giacca ed esco dal ristorante.
TRENTADUESIMO EPISODIO
Illustrazione: Valeria Terranova