inou si sta riprendendo velocemente, e altrettanto velocemente è giunto il famigerato giorno della prova dell’abito. Devo farmi coraggio.
Ho preso mezza giornata per prepararmi psicologicamente a questo momento, se l’abito che Cassandra ha in mente non dovesse piacermi e non trovassi il coraggio di dirglielo per non ferire i suoi ormoni, mi ritroverò vestita come un confetto: serve un piano — che studierò in macchina.
Infilo il cappotto, afferrò la borsa e mi incammino verso l’uscita, quando sento una porta aprirsi e Britney che chiama il mio nome. Mi volto: ce l’ho di fronte, si avvicina.
“Stai uscendo per pranzo? Vengo con te!”
“Stavo andando a casa, oggi ho preso il pomeriggio libero.”
“Ah sì?” chiede sorpresa. “Come mai?”
Farle credere di avermi dato un consiglio deve aver irrimediabilmente aumentato il livello di confidenza tra di noi, e a questo punto, non credo sia prevista un’inversione di marcia.
“Devo cominciare a pensare all’abito che metterò al matrimonio di Cassandra.”
“Ma è fantastico! Vai da sola?”
Ci sono almeno due ragioni per cui non le dirò che sto andando alla Casa della sposa con Cassandra. La prima: potrebbe auto invitarsi. La seconda: non voglio confessarle la storia del rosa pallido, ho una dignità da difendere.
“Sì, mi piace fare shopping in solitaria.”
La sua espressione dubbiosa mi fa pensare di non essere credibile. Ma soprassiede: “Hai già qualcosa in mente?”
“Non ci ho ancora pensato.”
Cerco di sfuggirle, ma mi riacchiappa.
“E comunque ti consiglio un raccolto: staresti benissimo.”
Fantastico. Una che vuole vestirmi, l’altra che mi suggerisce l’acconciatura.
“Grazie per la dritta… ora devo andare.”
“Aspetta…” dice bisbigliando. “Ho trovato lo chef… vuoi vedere il menu?”
“Sono un po’ di fretta…”
“Ma è molto richiesto… mi ha pregato di dare conferma entro oggi.”
“Okay, mostramelo.” dico indicando il foglio che ha in mano.
Britney si avvicina, lo alza quasi fosse un proclama e inizia a leggere:
“Lo chef suggerisce di entrare con un piccolo antipasto: gnocco fritto e tigelle, accompagnati da salumi e formaggi misti, lardo al rosmarino e pinzimonio con verdure di stagione. A seguire, tortelli burro e salvia e lasagne bicolore al ragù.”
Si ferma un momento, mi guarda cercando la mia approvazione, ma non coglie lo sgomento, continua: “Ho pensato di evitare il secondo, mi aveva proposto un’arrosto ripieno accompagnato da un pasticcio di patate, ma ho preferito puntare sul dolce: una torta Barozzi servita su un letto di mascarpone, ricoperto di scaglie di cioccolato fondente.”
Le avevo chiesto una cosa alla Cracco, non una alla ‘Camionisti in trattoria’.
“Cristina, volevo un menu leggero, questo è un attentato al colesterolo.”
“Potremmo togliere i tortelli…”
“Potremmo togliere tutto.” suggerisco ironica. “Questo chef non può proporci qualcosa di un po’ meno condito?”
“A me piace: è corposo…”
Pesante.
“Profumato…”
In effetti i capelli che sanno di fritto risvegliano i sensi.
“Forse è un po’ calorico, ma…”
Solo un po’? Mi stupisce che dopo il dessert non sia prevista una lavanda gastrica.
“Cristina…” la interrompo.
“Vuoi sapere come si chiama lo chef?”
Ha importanza?
“È famoso: si chiama Rubbieri”
“Conosco Rubio, conosco Barbieri, ma Rubbieri non l’ho mai sentito.”
“Be’, a dirla tutta, forse non è proprio famosissimo, ma ha talento e poi è mio cugino: viene gratis.”
Alla parola ‘gratis’, tutto sembra avere un altro sapore.
“Be’, allora digli di togliere il lardo al rosmarino, di aggiungere più pinzimonio e di sostituire i primi con una pasta senza panna e senza burro…”
“Il dolce però non si tocca.”
Alza l’indice verso l’alto mentre lo dice.
Vorrei almeno oppormi sul letto di mascarpone con doghe in fondente, ma l’unica alternativa ‘gratis’ che mi resta è la cucina di mia madre e francamente, tra correre e scappare non c’è differenza.
Mi arrendo.
“Andata. Comunica a tuo cugino la variazione di menu e ringrazialo da parte mia. Ora posso andare?” chiedo sfinita.
“Quindi la torta Barozzi è un sì?”
Non le rispondo nemmeno, la saluto e me ne vado.
Alle quattro precise sono davanti all’atelier. Cassandra mi ha avvisato di avere cinque minuti di ritardo, ne approfitto per dare un’occhiata alla vetrina: abiti da sposa bianchi, rosa e azzurri, con e senza strascico, a sirena e voluminosi. Cassandra non ha voluto anticiparmi nulla, vuole che sia una sorpresa. La immagino indossare ogni tipo di modello esposto, quale avrà scelto?
E d’un tratto, senza alcun tipo di preavviso, mi passa per la testa un’idea che non avevo mai considerato e una domanda sorge spontanea: quale sceglierei per me?
Arrossisco al pensiero di percorrere la navata mentre tengo a braccetto mio padre. Una chiesa piena di gente che mi guarda, qualcuno si commuove, qualcun altro accenna un applauso, e laggiù, in fondo, ai piedi dell’altare, non vedo Luca, ma Mila con una faccia che dice: questo matrimonio non s’ha da fare.
A interrompere il mio incubo a occhi aperti è un ‘eccomi’ squillante di Cassandra.
“Ciao.” dico voltandomi.
“Tutto bene?”
Sembra preoccupata: l’immagine di Mila deve avermi fatto impallidire.
“Tutto bene, tu?”
“Benissimo!”
Dal suo tono euforico deduco che non abbia ricevuto nessuna telefonata, nessun messaggio, nessuna mail con oggetto: cancellazione foto dal redazionale.
Meno male.
Abbasso la guardia, la osservo: ha un aspetto delizioso. Indossa un capotto blu che ricorda l’uniforme di un imperatore giapponese e un paio di tacchi in velluto bicolore. Ma ciò che mi colpisce è la borsa che porta sulla spalla: una signora Saddle logata. Ce l’ha anche lei.
Così va il mondo: c’è chi sfoggia la borsa dei miei sogni e chi è costretto ad assecondare quelli altrui trasformandosi in un confetto.
E mentre prometto a me stessa che non rimarrò l’unico essere sulla terra a non possederla, Cassandra mi prende la mano eccitata.
“Allora, sei pronta a vedere cosa ho scelto per te?”
Il senso del dovere prende il sopravvento e pure la parola: “Certo. Entriamo.”
La Casa della sposa è decisamente la casa della sposa. È tutto così candido, armonioso, elegante: è ciò che ogni sposa dovrebbe essere.
Il pavimento, in marmo chiarissimo, è tirato così a lucido da sembrare uno specchio, e la luce, che entra dalla vetrata, disegna una traiettoria che seguo con lo sguardo: ci sono un paio di divani chiari alle due estremità del salone
e, posizionati vicino a entrambi, due tavolini di ferro battuto con il piano in vetro. Sul primo c’è una pila di riviste specializzate, sull’altro un vaso di fiori bianchi di cui — tanto per cambiare — non ricordo il nome.
Alzo gli occhi verso l’alto: il grande lampadario di cristallo che sta sopra la mia testa mi ricorda quello che mi aveva impressionato da bambina.
Ci fu un tempo in cui i miei genitori, ogni giovedì sera, mi costringevano ad accompagnarli a una rassegna di commedie dialettali di cui non capivo praticamente nulla. Ma ora ho un dialetto discreto: presumo che la fonetica mi sia rimasta impressa. Come mi è rimasto impresso il lampadario che osservavo stupita, chiedendomi come facesse a non cadere sulla platea.
Quel teatro adesso è chiuso, mi domando se la colpa sia del lampadario.
E a distrarmi di nuovo dai miei pensieri macabri è un’altra voce squillante, quella di una ragazza che viene verso di noi.
“Ciao Cassandra!”
Ha i capelli ricci di un colore interessante: è rosso, ma non è il solito rosso che si vede sui bambini con le lentiggini, è caldo, è sexy. Anche i suoi lineamenti sembrano disegnati.
“Tu devi essere Melissa.” dice stringendomi la mano.
“Le ho già parlato di te…” bisbiglia Cassandra. “Mel, ti presento Anna: sarà lei a occuparsi di te.”
Lascio la presa, faccio un sorriso di circostanza, ma sono consapevole di non avere via d’uscita.
La ragazza ci invita a seguirla. Procede verso una lunga scalinata che conduce al piano inferiore. Scendo i gradini lentamente come fossero quelli di un patibolo, ma quando la visuale si apre e mi trovo di fronte a una parete di abiti appesi simili nuvole, mi sento invasa da un’ondata di romanticismo.
Sarà il candore del tulle e dell’organza, il profumo dei fiori freschi, i lustrini che mi circondano, la musica classica che sento in sottofondo: d’improvviso, vedo il mondo con gli occhi di una ragazza che sta per sposarsi, ed è rosa: rosa pallido.
Che diavolo mi prende? Non sono qui per provarmi un vestito da sposa, sono stata condotta qui — a forza — per un abito da damigella/testimone di colore rosa e c’è una bella differenza.
Distolgo lo sguardo dalle nuvole appese e mi volto. Ecco: un paio di poltroncine su cui attenderò che il mio destino si compia, ne scelgo una, mi siedo.
Cassandra e Anna dai capelli rossi sono di fronte a me: mi scrutano, bisbigliano.
Sanno cosa vogliono: hanno le idee chiare riguardo alla mia trasformazione, si stanno solo chiedendo da dove cominciare. Peccato che sia io a non volermi tramutare in un confetto.
“Vuoi dirglielo tu?” esordisce Anna rivolgendosi a Cassandra.
“Sì, voglio essere io.”
La mia amica fa un passo avanti, mi prende la mano e l’attira a sé costringendomi ad alzarmi.
“Melissa, l’abito rosa pallido di cui ti parlavo…”
“Sì ecco, devo dirti una cosa.” la interrompo. “È vero che mi sono vestita male per tutta la vita, ma c’è una cosa che ho imparato in questi mesi di incontri ravvicinati del terzo tipo con la moda: devi sentirti a tuo agio con ciò che indossi o non sarai mai elegante. E io non voglio farti sfigurare.
“Stavo dicendo che…”
La interrompo ancora: “devi ascoltarmi: anche se ho uno stile che non assomiglia al tuo, non significa che non lo abbia, ce l’ho e rispecchia la mia personalità: e il rosa proprio non mi piace.”
L’ho detto. Mi siedo sfinita con la consapevolezza che potrei averla ferita, ma lei scoppia a ridere.
“Ti conosco troppo bene, non ti avrei mai chiesto di vestirti di rosa. Ma ho apprezzato l’impegno nel cercare di accontentarmi.”
“Quindi era solo uno scherzo?” domando sollevata cercando la conferma nei loro occhi.
Anna annuisce compiaciuta.
“Ti ho chiesto di venire qui, perché volevo mostrarti l’abito che ho scelto.”
Sto per piangere.
“Vuoi davvero che lo veda?” chiedo con un filo di voce.
“Tu devi assolutamente vederlo!”
Cassandra si avvicina, mi dà un bacio. Anna la fa accomodare all’interno dell’ultimo di tre camerini, ma da qui non vedo niente.
Mi tolgo il cappotto cercando di rilassarmi, ma sono troppo emozionata: la mia piccolina sta per sposarsi e le starò accanto nel giorno più bello della sua vita. Il naso mi pizzica, la vista si annebbia: ora scoppierò in lacrime e rovinerò questo momento che era nato per essere di gioia. Basta Melissa, datti un contegno, non sei sua madre.
E lì, mentre mi rimprovero, la porta del camerino si apre ed esce una principessa.
Mi alzo, mi avvicino, ho paura di sgualcirla. So che i dettagli del suo abito dovranno rimanere segreti, eppure li osservo con attenzione per non dimenticarli: questo è un momento epico.
Dio com’è bella: quegli occhi felici, quell’aria sognante.
“Melissa stai piangendo…”
“No, è solo un po’ di raffreddore.” ribatto tirando su col naso.
“Vi lascio sole un momento.” interviene Anna allontanandosi.
Mi tampono gli occhi con il dorso della mano, non riesco a dire nulla, Cassandra mi ha lasciato senza fiato. E lì, mentre mi sforzo di trovare una battuta intelligente con cui prendermi in giro per la reazione esagerata, il telefono squilla e mi salva.
“Scusa un momento.” annuncio mentre mi dirigo verso la borsa che ho abbandonato sulla poltrona.
Vedo il nome sul display: trasalisco.
“Dottore, buonasera.”
“Melissa, sto portando Lolita alla clinica, credo che sia arrivato il momento.”
La mia espressione preoccupata fa accorrere Cassandra.
“Che succede?” bisbiglia.
“Ha iniziato il travaglio?”
Il dottore non risponde, la comunicazione è disturbata.
“Ha iniziato il travaglio?” ripeto ad alta voce.
“Non la sento, può ripetere?”
“Sta per partorire?” chiedo ancora.
“Chi?” interviene Anna attirata dalle mie grida. “Devo chiamare un’ambulanza?”
Il suo sguardo atterrito si placa soltanto quando si accorge che sto parlando al telefono: sospira, si mette una mano sul petto quasi a voler frenare il battito cardiaco.
“Dottore mi sente?”
“Sto andando alla clinica, ci vediamo lì.”
Non mi ha nemmeno lasciato il tempo di dirgli che dovrò raggiungerlo: devo muovermi se voglio arrivare prima di lui.
“Ragazze, il dovere mi chiama: Lolita sta per diventare mamma.” dico infilandomi il cappotto.
Cassandra mi accompagna all’inizio della scalinata vestita da sposa, ma ormai ci ho fatto l’abitudine. Ora sono i cuccioli la mia unica preoccupazione. Mi raccomanda di guidare con prudenza, la bacio e fuggo via.
Salgo in auto, metto in moto e chiamo la clinica. Voglio avvisare Ilenia che Lolita sta arrivando.
“Clinica veterinaria buonasera, sono Federica.”
“Sono Melissa, puoi passarmi Ilenia?”
“È appena uscita…”
“Perché? Dove?” chiedo concitata.
“È fuori per una visita, è partita dieci minuti fa… Che succede?”
Controllo l’orario sul display del cruscotto: e se il dottore fosse già arrivato?
Mai avrei pensato di dirlo, eppure lo dico:
“Passami Cristina.”
Il trasferimento di chiamata, la sua voce.
“Eccomi, che succede?”
“Cristina ascolta, il dottore sta portando Lolita alla clinica, credo che abbia iniziato il travaglio.”
“Ho avvisato lo chef per la variazione del menu.”
“Pensi che mi interessi il cibo in un momento come questo?”
“Anche tu lo hai fatto con me… volevo solo tranquillizzarti.”
Ma Minou aveva i RIS, io ho solo te.
“Aspetterò Lolita e la aiuterò a partorire. Puoi fidarti di me.” mi rassicura.
Avrei preferito non pronunciasse l’ultima frase, d’istinto faccio corna toccando il ferro della maniglia.
“Sono per strada, sto arrivando.”
CINQUANTAQUATTRESIMO EPISODIO
Illustrazione: Valeria Terranova