20
Lug
arafrasando la Bibbia, quella parola scritta nel capitolo diciotto, pagina duecentoquarantadue, trentesima riga, continua a turbare la sensibilità di mia suocera.
Le fonti sono attendibili — sono state Emma e Ringhio a riferirmelo — e non posso ignorarle.
Credevo avesse capito che l’ironia è l’ingrediente principale del romanzo e che il titolo di ‘strega’ che le ho attribuito è solo un termine contestualizzato a una situazione descritta: non può farne una questione personale. E poi nessuno ci farà caso.
“Lo sai che alla festa due ragazze mi hanno riconosciuto…”
“Alberta: ti ho fatto diventare una piccola celebrità!”
“Mi hanno indicato dicendo: ‘ecco, lei è la strega’ e poi si sono messe a ridere.”
E va bene. Forse ho un tantino esagerato, ma dovrebbe saperlo che uno scrittore non può farsi condizionare dai suoi personaggi — anche se sono permalosi.
Siamo tutti sacrificabili per un disegno più grande e un romanzo mi pare che lo sia.
Ma non sarò impulsiva, le porgerò le mie scuse di nuovo, poi le preparerò uno schema per chiarire che l’ironia solletica il sistema nervoso provocando la risata, ribadirò che è solo il mio mestiere — business is business — e alla fine, le suggerirò di leggere il libro una seconda volta e di goderselo per ciò che è.
Qualcuno lo ha descritto come una storia di pregiata semplicità: dovrei farci un hashtag e lei dovrebbe essere lusingata di farne parte.
E mentre mi domando se avrò mai il suo perdono, il telefono squilla. Rispondo ed è ancora Carmen dell’agenzia letteraria.
“Ciao tesoro! Come stai?”
“Bene grazie, non ti disturbo, vero?”
Potrei essere al Conad con il carrello pieno zeppo di spesa e la cassiera che mi chiede il pin del bancomat che ho dimenticato, e non mi disturberebbe.
“Certo che no, tesoro, dimmi pure.”
“Radio Radio ti ha invitato per un’intervista. Dovresti essere lì alle tredici, prima dell’appuntamento con Gallucci. Che ne pensi, si può fare?”
Me lo sta chiedendo? È seria?
“Vedrò di farcela.”
Fino a oggi ho fatto due interviste radiofoniche al telefono: una con Radio Number One, l’altra con Radio Bruno, ma la sola in cui sono stata di persona è quella di Giovanni D’Onofrio, il mio amico break dancer/dj che cito nel libro.
Una piccola casetta giallo zafferano situata nel bel mezzo delle campagne modenesi, proprio di fronte alla sede del PD: Radio Joe.
Ora, per dovere di cronaca, credo sia giusto chiarire che Giovanni nel romanzo c’è finito per caso. Il suo nome è sulla carta stampata per sua gentile concessione, ottenuta solo dopo avergli raccontato tutta la verità — in una telefonata.
“Vorrei mettere il tuo nome nel libro…”
Dall’altra parte: il silenzio.
Forse si sta chiedendo il motivo, in fondo, ci siamo visti solo una decina di volte nella vita, e la maggior parte di esse, insieme a una crew di giovani ballerini che avevo adescato per un video di adidas. Cosa vorrà in cambio questa vecchia?
Ma la verità è che quell’esperienza radiofonica mi è rimasta nel cuore, e siccome la casa editrice mi chiede di sostituire un nome, ho deciso che il suo è il solo possibile: se lo merita.
“Ti spiego che succede: c’è un capitolo del libro, in cui racconto di una ‘comparsata’ a Radio 105…”
Joe rimane in silenzio.
Mi accerto che sia ancora vivo, glielo domando senza mezze misure, lui risponde di sì e io vado avanti con la storia.
“Naturalmente mi sono inventata tutto, ma cito uno dei conduttori, il mio preferito per essere esatti, che però non mi dà l’autorizzazione a mettere il suo nome.
Mi piacerebbe mettere il tuo, visto che sei stato l’unico a ospitarmi in radio.”
Non ho nemmeno bisogno di ripetere la domanda, lui si mette a ridere, è felicissimo. Mi chiede quando uscirà il libro e dopo avergli comunicato la data ufficiale — che ancora non posso divulgare — aggiunge che tre giorni dopo sarà il suo compleanno: si farà un regalo e lo comprerà.
Mi congratulo con me stessa per aver fatto questa scelta, Joe era entusiasta di fare parte della squadra, ed è così dovrebbe essere.
La mattina seguente è l’alba a svegliarmi — e un terribile mal di testa, che non posso permettermi.
Ieri sera ho lavorato fino a tardi, e ora mi sembra di avere uno scalpello conficcato nelle tempia di sinistra, mentre quella di destra per rispondere all’urto, batte più forte: non vedrò mai gli studi di Canale 5.
Bicchiere mezzo pieno dove sei? Perché mi hai abbandonato?
Eccolo: sul tavolo della cucina, accompagnato da un cucchiaio e da una bustina di ketoprofene. Mi sento già meglio, corro a vestirmi.
Esco di casa con appena cinque minuti di ritardo — rispetto alla tabella di marcia che mi sono prefissata — ma recupererò per strada. So come fare.
Non ho bevuto per tutto il viaggio e ignorando la sete, ho risparmiato due pause pipì all’Autogrill, riuscendo così ad arrivare a Roma con un po’ di anticipo.
Parcheggio e raggiungo il civico che mi è stato indicato, salgo le scale e mi trovo di fronte a un portone spalancato. Cerco il nome della radio sui campanelli, lo trovo, suono e mi invitano a salire.
Una signora bruna con la capigliatura da Tina Turner mi accoglie e mi fa strada lungo il corridoio per condurmi nel salottino di pelle bianca, che sta di fronte alla sala di registrazione. Francesco che è già in onda, mi saluta alzando la mano.
“Tra poco tocca a Lei.” dice la signora dopo avermi fatto accomodare.
Mi ha dato del Lei?
Mi pare evidente che l’idea di indossare un mini abito fucsia svolazzante per togliermi qualche anno non abbia funzionato. Ma ho ancora la diretta per sfoggiare il mio spirito giovanile, punterò tutto su quello.
Dopo cinque minuti, sono in onda anch’io.
Gesù non mi ha ancora abbandonato, lo capisco dalla poltroncina girevole che mi ha messo a disposizione, non è lo sgabello irraggiungibile che descrivo nel libro, su cui mi sarei dovuta arrampicare.
Mi siedo, infilo le cuffie e mi avvicino al microfono.
L’intervista va bene, tengo le mani salde ai braccioli della seduta, sforzandomi di non gesticolare e ci riesco. Riesco anche a svelare un piccolo segreto riguardo alla copertina. Francesco mi chiede il perché di quel bambino con l’ombrello, rispondo che non sono stata io a sceglierlo, ho solo proposto il titolo e il colore della copertina, che inizialmente era celeste, ma la cosa curiosa è che quel bambino mi ricorda Georgie, il bambino di It, e il mio libro inizia proprio con lo stesso incipit del famoso romanzo di Stephen King. Sarà un caso?
A intervista finita, ringrazio ed esco dalla sala piena di soddisfazione. Saluto e torno alla macchina per raggiungere Mediaset.
La pipì non è ancora contemplata.
E mentre metto in conto che potrei perdere un rene per sempre, arriva un messaggio di Ringhio: la mia vita è scandita dal telefono.
Mi scrive che è già arrivata, ma non la fanno entrare: è in anticipo. Continuo a ripetermi che il ritardo abbia il suo perché.
Me la trovo di fronte dieci minuti più tardi.
È bellissima, ha un look fresco e il make-up perfetto che da sempre la distingue.
Mi bacia, mi abbraccia, ma subito dopo, il suo pollice si precipita sul mio zigomo per eliminare un eccesso di illuminante.
Ha l’espressione di chi preferisce non esprimersi, ma sono quasi certa che si stia chiedendo se in radio mi sia presentata così.
Mento per sollevarle lo spirito.
“Deve essere stato il ritocco che mi sono fatta in macchina prima.”
Non se la beve: lo capisco dal suo sguardo rassegnato, ma entrambe preferiamo lasciare cadere il discorso e ci incamminiamo: è giunta l’ora.
Le guardie all’ingresso, che ci chiedono di mostrare i documenti, mi procurano la stessa agitazione di un posto di blocco, come se non ne avessi già abbastanza, ma poi è una signora gentile che viene a ritirarci in portineria a metterci a nostro agio.
È una donna magrissima dall’aspetto interessante. Indossa una mise sportiva: camicia, jeans, sneakers; si chiama Debora, ha gli occhi celesti, e porta le lenti da vista.
Dopo averci spiegato come funziona la messa in onda, anticipando che ogni giorno vengono registrate diverse interviste e che non è prevista una programmazione, ci chiede gentilmente di dare la precedenza a un altro autore più anziano, che sta arrivando. Acconsento, ci mancherebbe.
Nel frattempo, Debora ci accompagna alla reparto ‘trucco e parrucco’ e io mi sento una star: una star con la crescita.
Il parrucchiere mi chiede cosa voglio fare.
“Un ritocco alla base!” rispondo in tono scherzoso per camuffare l’imbarazzo provocato dai capelli bianchi che spuntano dalla radice.
Anche lui si mette a ridere.
Mi scuso, aggiungo di essere imperdonabile, ma questa cosa dell’intervista è capitata così, tra capo e collo — come una ghigliottina — e avevo già fissato l’appuntamento per il colore, ma per domani. E so che avrei dovuto mettermi il mascara per i capelli per nasconderlo, ma… Il parrucchiere mi zittisce accendendo il phon e riprende la piega del giorno prima.
Perché racconto sempre i fatti miei?
Mi rimprovero spesso per questo. Ma oggi sono qui per un’intervista, magari a qualcuno fa piacere sapere che la mia pianificazione della cura personale, a volte lascia un po’ desiderare.
Non si può essere sempre perfetti: sono umana anch’io — o almeno credo.
Al momento del make-up, la ragazza dei pennelli mi fa notare che sono già truccata — certo, vorrei rispondere, ho appena fatto un passaggio radio, mica potevo presentarmi al naturale, anche Ringhio non l’avrebbe presa bene. Dice che si limiterà a sistemare ombretto e fard. Così sia.
Alla fine, sono identica a prima, ma psicologicamente pronta ad affrontare Gallucci. Ho solo bisogno di un caffè.
Ringhio lo trova: in una saletta adibita alla ristorazione, adiacente a un cortile interno su cui sorge una pianta imponente ricoperta di fiori fucsia. Valeria, che ha un pollice decisamente più verde del mio, la identifica con un nome preciso: lagerstroemia speciosa, per me, è solo un delizioso accessorio cromatico che pare messo lì, giusto per uno scatto con il libro.
A interrompere il nostro shooting amatoriale è un taxi che si ferma proprio nel cortile, Valeria ripone il telefono nella borsa, io abbandono la posa plastica e ci mettiamo sull’attenti, curiose di sapere di chi si tratti.
Come supponevo, è il mio agente letterario. Accompagna un signore anziano, che presumo sia l’autore a cui ho ceduto il posto.
Il dottore viene verso di me con il suo sorriso smagliante, mi saluta, ma anche lui, seppure mi voglia bene, sbaglia il mio nome.
“Alessia…”
Cerca di dribblare facendo vibrare l’ultima vocale, quasi fosse il prolungamento di un saluto, alza il braccio verso l’alto per farsi suggerire dal Padre Celeste il nome giusto, e ci sorprende con un: “Enrica… come sta?”
Io e Valeria tiriamo un sospiro di sollievo.
“Bene dottore, grazie, e Lei?” chiedo avvicinandomi per abbracciarlo.
“Sono orgoglioso di presentarle Raffaele La Capria.” mi dice. “Una delle voci più significative del panorama letterario italiano.”
“Molto lieta.” dico timidamente stringendogli la mano.
Immagino la differenza di spessore culturale che sta tra lui e me — se dolessi paragonarla a qualcosa, direi a un abisso — ma la mia voglia di sprofondare viene interrotta da una sua frase, pronunciata mentre ricambia la mia stretta. Chiede se sono l’autrice simpatica del libro fucsia.
Annuisco, sorrido.
Debora, che nel frattempo si è materializzata davanti a noi, li accompagna nello studio di registrazione, noi restiamo lì ad aspettare il nostro turno.
“Amo! Sai chi è?” mi chiede Valeria con l’aria di chi conosce la risposta.
È in momenti come questo che la vita dovrebbe metterti a disposizione un gobbo di Wikipedia per evitarti la classica figura da ignorante.
“Certo che lo so, è il marito di Ilaria Occhini, l’attrice di ‘Mine vaganti’.”
I suoi occhi dicono una cosa sola: tutto qui? Vorrei ribadire che è il cinema la mia specialità, ma prima che possa peggiorare la situazione, lei interviene:
“Ha collaborato con Lina Wertmüller da sceneggiatore, ha studiato ad Harvard e ha vinto un sacco di premi alla carriera, anche il Premio Strega per ‘Ferito a morte’, uno dei suoi libri più importanti…”
“Mi spieghi come fai a saperlo?” le chiedo basita.
“L’ho letto su Wikipedia mentre vi stavate presentando.”
Ah, meno male.
Ora, sarà meglio concentrarmi su quello straccio di discorso che ho preparato ieri sera: se riesco a ripeterlo senza esitare e senza gesticolare, sarà perfetto.
“Prêt-à-bébé è la storia di una ragazza insicura, che vive un dramma adolescenziale piuttosto tipico: è in lotta con il suo corpo. Ma un giorno decide di cambiare il suo modo di vedere le cose, di concedersi una possibilità, e in concomitanza a questo desiderio, Enrica incontra Giaco, che diventa presto il grande amore della sua vita.
I due sono coraggiosi e vogliono mettere su famiglia, ma da dove si comincia?
In senso fisico, nella bellissima Positano, in senso pratico, mettendo in gioco tutti i sentimenti possibili e immaginabili.
E quando arrivano Emma e Carola, si inizia a fare sul serio.
Il tema principale potrebbe sembrare la maternità, ma il concetto è più ampio: come fa una mamma a mantenere il ruolo di donna, nonostante la gravidanza e la nascita di un bambino che le sconvolge la vita?
Prêt-à-bébé non è un manuale, è una storia. Una storia con un sottofondo cinematografico, scritta da chi crede che la vita sia un film: tutto dipende da come la si racconta.
Sigla!”
Lo ripeto mentalmente per una decina di volte, come una poesia, peccato che Valeria mi stia suggerendo di ‘andare a braccio’, di essere spontanea.
Improvvisare? A Canale 5? Non esiste.
L’ansia mi sta divorando, quando Debora riappare chiedendoci di seguirla.
Dunque tocca a me, a me e alla mia poesia, ma prima che possa recitarla, il dottore e Raffaelle La Capria, escono dallo studio e tornano da noi.
Il dottore chiede allo scrittore di lasciarmi una dedica sul suo nuovo libro ‘Il fallimento della consapevolezza’, ma anche lui ci mette un po’ per intendere il mio nome. Avrei voglia di semplificargli le cose, di suggerire Alessia e di finirla lì. E invece ce la fa, scrive: ‘A Enrica con il mio augurio. Raffaele La Capria.’
I due ci salutano e arriva Carlo Gallucci.
La musichetta di Profondo Rosso torna a farsi viva nella mia mente, ma mi trovo di fronte a un uomo dall’aria accomodante.
Mi invita a prendere posto, porgendomi qualche domanda prima di iniziare.
Quella che più mi incuriosisce riguarda Giaco: esiste davvero?
Ora, mi rendo conto che gli uomini pazienti e innamorati rappresentino una rarità nel genere maschile, ma rispondo di sì. Gli mostrerei anche un’immagine sul telefono, se ne avessi una recente, ma lui non ama farsi fotografare: dovrà credermi sulla parola.
Mi chiede se scrivere è la mia unica attività, rispondo che i miei lettori occupano un posto importante nella mia vita, e anche nel mio lavoro. Si sorprende che risponda a tutti. Affermo che non potrebbe essere altrimenti: sono stati loro che, dall’inizio, mi hanno fatto sentire una vera scrittrice senza libro in libreria. Si complimenta e mi domanda se sono pronta a registrare.
“Sì, certo.” rispondo, “Ecco vede: io mi sarei preparata un discorsetto per non farle perdere tempo, che ne pensa?”
“Preferirei che ‘andassi a braccio’, sii spontanea… vedrai che andrà bene.”
Ancora questa storia del braccio? E la mia poesia?
Dio come vorrei che fosse un’intervista in playback in cui tutto fila liscio come l’olio.
E invece, mi tocca un vero e proprio live.
3,2,1. Sbaglia lui, si ricomincia.
Nel frattempo Ringhio, inconsapevole di essere entrata nello studio clandestinamente, fa un reportage fotografico completo, anche ai cameraman.
Carlo Gallucci mi dà il via.
“Allora Enrica, cosa ci racconti del tuo Prêt-à-bébé?”
Mi piace il tono francese con pronuncia il titolo del mio romanzo: mi esalta.
Decido che il ‘braccio’ lo lascio agli altri, vado con la filastrocca, ma il finale si conclude in modo misero. Rimpiango di non aver detto quel ‘sigla!’ che chiudeva la sceneggiatura. Quello sì che avrebbe spaccato, e invece mi è uscito un ‘così’ insieme a quindici punti di sospensione.
Se fosse un hashtag sarebbe #insicurezza.
Siamo comunque soddisfatti entrambi e decidiamo per un ‘buona la seconda’.
Anche questa è andata.
Salutiamo, Valeria viene ripresa da Debora per essere entrata senza autorizzazione, io ne approfitto per fare pipì.
Illustrazione di Valeria Terranova