mma ha tre anni e la sua mamma sta per partorire — ma nessuno lo sospetta. Mancano ancora dodici giorni alla data presunta, e la nuova cameretta arriverà in meno di una settimana. Michele, il nostro elettricista, sta facendo alcuni lavoretti per ultimarla. Giaco gli indica dove intervenire, lui prende la mira con il trapano e io li seguo con l’aspirapolvere, per limitare i danni che solo due uomini messi insieme, nella stessa stanza, possono provocare. Se non fosse per queste piccole contrazioni a intermittenza regolare — ogni quindici minuti — sarebbe quasi uno spasso. Ma non credo che siano contrazioni da parto, sono già diventata mamma una volta: so come funziona. Queste sono piccole scosse di assestamento. E poi non ho tempo per queste cose: devo fare la ceretta.
Ritorno in soggiorno, trascinandomi dietro la mia fedele alleata, poi la lascio lì: tra i piedi, per fare compagnia a Emma, che ha scoperto un nuovo gioco: tagliare la carta con le forbicine. L’aspirapolvere sta caricando come un toro per raggiungere i pezzetti di carta che sono caduti sul tappeto, ma io la stoppo con lo sguardo: è un momento madre e figlia, lasciaci sole.
“Amore mio: c’è una fetta di foresta amazzonica qui sotto il tavolino. Quanta carta hai tagliato?” chiedo scherzosa.
“Un pochino.”
Le scappa una risata, la guardo e penso che sia bellissima. La contrazione che è appena iniziata, invece, è terribile. Respira, respira, respira. Do un colpo di tosse per riprendermi, ma realizzo che queste, forse, non sono solo scosse di assestamento. Dovrei dire qualcosa: “Emma, ascolta: oggi potrebbe nascere la tua sorellina…”
“Davvero?”
Dai dolori che sento è probabile.
“Sì, potrebbe. Sei contenta?”
“Aha.” risponde distratta senza staccare gli occhi dalla carta, “Adesso posso continuare a tagliare con le forbici?”
È evidente che la mia soglia del dolore è altissima, che sono molto brava a mascherare, e che lei ha cose più importanti a cui pensare. Michele ci saluta e se ne va, io guardo l’orologio ed è ora di andare.
“Giaco, io vado dall’estetista.”
Lui mi guarda con un’espressione traducibile in: ‘ci sei o ci fai?’ Un po’ ha ragione, Carola potrebbe nascere in anticipo, è da stamattina che avverto movimenti tellurici provenire dal mio utero, ma ho imparato a conviverci. Mi sento come James Hunt quando simula mentalmente la sua corsa, sulla pista di Formula Uno. Anche io ho valutato il mio percorso: a metà strada — in prossimità della rotonda del Conad — verrò colta da ‘dolori tipo parto’ che manco Fantozzi, ma sarà solo un falso allarme. Farò un bel respiro, chiamerò la nonna e arriverò a destinazione senza intoppi. Dopo aver parcheggiato, salvo contrazioni improvvise, attraverserò la strada con disinvoltura: nessuno si accorgerà di niente. Sarò solo una donna all’ottavo mese di gravidanza che va a farsi la ceretta.
Mentre penso a tutto questo, Giaco non è ancora riuscito a superare lo shock.
“Dove vai?” chiede stordito.
“Dall’estetista. Ho l’appuntamento da due settimane, non è una cosa che ho deciso adesso.”
“Ma due settimane fa, non avevi delle contrazioni ogni quindici minuti…”
“Hai ragione: vallo a sapere tu.” dico sarcastica.
“Quindi?”
Che domande sono? Una ragione in più per depilarmi: non voglio andare in ospedale ed essere in disordine. Ma questo non posso dirglielo. Gli prendo il mento per ruotare il suo viso verso Emma, che continua a ritagliare sagome con la carta.
“La vedi? L’ho fatta io. So riconoscere una vera contrazione: questa ci assomiglia, ma non lo è. Fidati.”
Non mi crede: la sua espressione sconvolta lo conferma. Lo abbandono per un attimo e vado in camera da letto a recuperare la borsa per l’ospedale che ho preparato una settimana fa: quelle cose che sbrighi in anticipo, dicendoti ‘non si sa mai’. Torno da lui, sorrido e dico:
“Fidati di me: non è questo ‘il momento’. Ti sembro il tipo che esce di casa con un travaglio in corso? Come se niente fosse?”
Mio marito sa bene chi ha di fronte, la sua espressione dice: ‘sì, da una come te ci si può aspettare di tutto’, ma eviterei di dargli ragione, proprio adesso che sto per uscire.
“Comunque, se dovessi sbagliarmi, verrai a prendermi e non dimenticare questa.” concludo rassicurante, consegnandogli la borsa. E quel gesto, traducibile in ‘stai tranquillo, posso farcela’, viene interrotto da un’altra scossa, che mi lascia senza fiato. Guardo l’orologio, poi Giaco, poi Emma. Ho calcolato anche questo: ora aspetterò che finisca e salirò in macchina. Respira. Respira. Respira.
“Enri, preferisco accompagnarti.”
Il suo modo di dosare l’autorità mi commuove: è premuroso, amorevole, preoccupato — molto preoccupato — ma nessun uomo può fermare una donna incinta, specie se è testarda e con una contrazione in atto.
“No amore, ci vado da sola, ti chiamo se c’è bisogno.”
Do un bacio a Emma, uno a Tobia, uno a Giaco e sono fuori di casa. Vedo il Conad in lontananza, tra poco arriverò alla rotonda: speriamo che i dolori non comincino sotto curva o cambiare marcia sarà più difficile, sarebbe meglio su un rettilineo. Ma prima che possa fissare — anche solo mentalmente — il punto ideale per affrontare la contrazione, lei arriva senza preavviso e sotto curva. Una smorfia di dolore mi fa stringere i denti, credevo di gestirla meglio, ma un bambino che sta per uscire non ti concede tanta autonomia. Respiro e sul rettilineo che avevo immaginato, comincio a sentirmi meglio: chiamo la nonna. La nonna Ernesta ha 79 anni, ma non è debole di cuore: posso dirle la verità. Eviterei giusto la ceretta, ai suoi tempi cose del genere non erano neanche in nota, specie in procinto di un probabile parto prematuro, ma voglio dirle come mi sento. Il viva voce si attiva e io cerco di rilassarmi per non allarmarla più del dovuto.
“Nonna ciao, sono l’Enrica.”
“Cocca…”
Adoro quando mi chiama così.
“Come stai?”
“Bene, credo che oggi diventerò mamma per la seconda volta…” — verso sera sarebbe perfetto — “e tu, come stai?”
“Bene. Ti pensavo proprio stamattina. Stai tranquilla e andrà tutto bene. Adesso dove sei?”
Odio mentirle, ma non voglio farla preoccupare.
“A casa, sul letto.”
“Brava. Non affaticarti e tienimi aggiornata.”
“Certo, e a proposito, se potessi dire una preghierina per farmi patire meno…” suggerisco.
Mia nonna è un diacono: non sfruttare certe conoscenze celesti sarebbe da stupidi.
“Lo sto già facendo.” puntualizza divertita.
La saluto e concludo la mia corsa. Parcheggio nel viale della destinazione, che è in pieno centro, la sosta è a pagamento e con me non ho nemmeno una monetina. In condizioni normali, andrei in un bar, ordinerei una spremuta e avrei due euro per il parcheggio, ma me la sto vedendo con un’altra contrazione, che ha anticipato i tempi di circa sette minuti. Speriamo sia solo un piccolo fuoriprogramma. La faccio passare e attraverso la strada, consapevole che al mio ritorno, troverò una multa sul parabrezza, ma non sarà questo a fermarmi: farò questa ceretta a tutti i costi.
Guardo a destra, poi a sinistra, mi avvicino alle strisce pedonali e cerco di levarmi quell’andatura da papera — probabilmente causata dalla testa della bambina che sta cercando di uscire. Faccio un bel respiro, raddrizzo la schiena e riprendo gli occhiali da sole che ho lasciato tra i capelli, per metterli sul naso, e con un passo disinvolto, che vorrebbe assomigliare a quello di Marpessa — nella sfilata primavera estate 1992 di Versace — attraverso la strada e arrivo dall’altra parte. Sono di fronte alla porta del centro estetico e vedo il mio riflesso su una delle vetrate. Sono carina, non sembro sofferente: non si accorgeranno di nulla. Suono il campanello, la porta frizza e io la spingo per entrare. Il divanetto di pelle sulla destra mi attira come una calamita, ho bisogno di sedermi, di respirare. La Frenci mi riceve con il suo camice bianco e un sorriso Durban’s, io vorrei poter fare lo stesso, ma il mio assomiglia più a una smorfia di dolore.
“Allora cara, quanto manca al termine?”
Sulla carta ancora due settimane, ma nella realtà, credo ci vorranno al massimo quindici minuti.
“Abbiamo ancora dodici giorni…” dico, cercando di attenermi alla domanda.
“E come ti senti?”
“Benissimo!”
So che finirò all’inferno, nel girone dei mentitori incalliti, ma questa ceretta è necessaria e non posso dirle delle contrazioni: finirebbe per chiamare un’ambulanza, e davanti al pronto soccorso, Giaco, già avvisato dell’accaduto, sarebbe sulla porta ad aspettarmi, dicendomi: ‘te lo avevo detto!’ e io non lo sopporterei.
“Allora cominciamo: abbiamo la ceretta completa alle gambe e le sopracciglia.”
Annuisco, mi alzo e la seguo nella seconda cabina sulla destra, dove il tavolo delle torture è già stato preparato. Mi svesto, mi sdraio sul lettino e al primo strappo, mi sento morire. E io che pensavo che i dolori da parto avessero il potere di eclissare quelli procurati dalla ceretta, ma mi sbagliavo: è amplificato.
“Tutto bene?” mi chiede.
“Sì…”
“Sicura?”
Neanche le domande di rito riescono a farmi mascherare il dolore. E mentre faccio per ripetere un sì più convincente, arriva un’altra contrazione.
“Enrica, chiamo un’ambulanza.”
Che cosa? Abbiamo appena cominciato, non crederà sul serio che possa andarmene in questo stato?
“Sono solo scosse di assestamento, mancano quasi due settimane alla data presunta, stai tranquilla, andiamo avanti.” dico in tono sereno.
Il fatto che sia io a tranquillizzare lei, mi fa pensare di avere ancora il controllo della situazione e la sua paura di assistere a un parto in diretta, dovrebbe motivarla a concludere in tempi record. Riprende, muovendosi velocemente: stende, preme, strappa e io sono sul punto di mettermi a urlare. Poi, la vedo fermarsi di colpo, indietreggia di un passo e fissa la mia pancia con occhi pieni di terrore.
“Enrica, sul serio, ora chiamo un’ambulanza!”
Questa volta sarà più difficile convincerla: è appena iniziata una nuova contrazione — decisamente più intensa della precedente — ma mancano solo sopracciglia e inguine per portare a termine la missione. Non posso mollare.
“Sei preoccupata perché vedi le mie smorfie, vero?”
“No! Sono preoccupata perché vedo la tua pancia: è sul punto di esplodere!”
“Manca poco…” dico, cercando di essere persuasiva, ma dalla sua faccia — simile a quella di Mia Farrow in Rosemary’s Baby — intuisco che devi avermi fraintesa.
“Manca poco per finire.” puntualizzo, “e quando sarò in ordine, potrai chiamare Giaco per farmi accompagnare in ospedale, okay?”
È evidente che l’immagine di un feto che fa bungee jumping con il cordone ombelicale ha il potere di rendere possibile anche ciò che per natura non lo è: dopo diciotto minuti mi ritrovo con un inguine sgambatissimo, un paio di sopracciglia favolose e un marito con gli occhi fuori dalla testa che è appena venuto a ritirarmi, come fossi un pacco di Mail Boxes Etc. Emma è stata teletrasportata dalla nonna e Giaco non mi ha ancora rinfacciato questa bravata: credo che anche lui non immaginasse che potesse essere oggi il giorno in cui diventare papà per la seconda volta.
Arriviamo all’ospedale, ma trovare un parcheggio davanti all’entrata principale è impossibile. L’unico posto disponibile è circondato dalle linee gialle. Non mi sembra il momento di precisare che sotto di noi c’è la scritta ‘bus’. Mio marito lo scoprirà da solo, dopo che avrò partorito, quando il carro attrezzi gli avrà rimosso la macchina per divieto di sosta. Scendiamo dall’auto alla velocità della luce — lui in tutti i sensi, io un po’ meno — e prendiamo la borsa dal bagagliaio. Iniziamo a salire le scale che conducono all’ingresso. Giaco mi sostiene, mi abbraccia, mi bacia, ma appena varca la soglia del reparto maternità mi molla lì da sola, facendomi sentire di nuovo come il pacco di Mail Boxes di poco fa. Si è messo a correre come un forsennato, lungo il corridoio, quando una delle ostetriche, che sta uscendo da una delle stanze, lo vede e cerca di calmarlo. Alzo la mano per ricordare che esisto: se c’è qualcuno che merita assistenza, quella sono io. L’ostetrica mi raggiunge, seguita a ruota da Giaco e mi chiede:
“Come si sente?”
Da lei mi sarei aspettata una domanda meno scontata, ma è Giaco che risponde al posto mio: “Sta per partorire, sta per partorire!”
“Ho delle contrazioni da questa mattina, prima ogni quindici minuti, ora ogni sette, ma mancano ancora dodici giorni alla scadenza.” preciso.
Il suo sguardo comprensivo e premuroso, riesce quasi a distendermi, Giaco, invece, scuote la testa, mangiandosi le unghie della mano destra. Non sono più così sicura di essere davvero io quella che ha bisogno di assistenza.
“Facciamo un tracciato e vediamo come sta andando.” suggerisce l’ostetrica, cercando di tranquillizzare entrambi.
Ci fa strada verso una stanza che mi sembra di riconoscere, ma sono passati tre anni dall’ultima volta. Giaco continua a stringermi la mano, e io sono di nuovo nel bel mezzo di una contrazione. Mi chiede di sedere sulla poltrona che ho di fronte, posiziona la fascetta intorno al mio giro vita e controlla i risultati.
“Dall’intensità rilevata dal tracciato, le contrazioni non sembrano così forti.” dice.
Mi verrebbe da chiederle se per caso ha voglia di provarne una, visto che è tanto sicura di ciò che sta dicendo.
“Forse non è ancora il momento giusto”, aggiunge.
“Cosa ti avevo detto?” dico votandomi verso Giaco che è rimasto a bocca aperta.
Tutti coloro che mi hanno dato dell’incosciente dovranno ricredersi: io sono una mamma, possiedo un istinto materno, e ho sempre saputo che questo era un falso allarme.
“Perfetto, se per lei è tutto okay, posso tornarmene a casa a prendere il sole.”
“Certo.” conferma sorridendo, mentre toglie i sensori dalla mia pancia.
Mi alzo in piedi, felice di aver avuto la mia rivincita, ma rimango accovacciata, in preda a un dolore fortissimo. L’ostetrica a stento mantiene la calma, facendomi qualche domanda:
“Sente lo stimolo di fare pipì?”
Annuisco col capo.
“Sente lo stimolo di andare di corpo?”
Annuisco ancora.
“E poi cosa sente?”
Leggilo sul tracciato, no? Hai detto tu che potevo tornare a casa a prendere il sole.
“Devo partorire!” grido.
Giaco e l’ostetrica mi sostengono accompagnandomi dritta in sala parto. L’ostetrica mi chiede di trovare una posizione in cui sentirmi comoda. Francamente non credo sia possibile: è come se avessi un cactus piantato nel c**o. Resto lì dove sono: in piedi, con le ginocchia piegate e il busto in avanti. “Sento di dover spingere.” dico sfinita.
“Spinga!” mi incoraggia l’ostetrica. “Spinga quando sente arrivare la contrazione!”
Contrazione? Quale contrazione? Faccio forza sulle gambe, spingo e Carola viene al mondo.