uesto momento rimarrà impresso nella mia mente per sempre: sento il vento tra i capelli, i fiorellini che tentano di rimanere aggrappati alle spille e il profumo di Morra che mi solletica il naso. Che schifo. Che diavolo si è messo? Meglio non saperlo. Controllo dallo specchietto retrovisore che la famiglia sia al completo: mio padre non è ancora volato via e mia madre ci segue in macchina con il bouquet da lancio. Ho scelto delle fresche e lunghissime calle olandesi, e mentre cerco di capire come riuscire a tirarle senza danneggiare persone e cose, realizzo che all’appello manca solo mio fratello. Gigi la peste. Stavo ancora dormendo quando è passato a salutarmi stamattina.
“Enri, oggi è il tuo giorno… E non mi sono dimenticato della promessa che ti ho fatto.” ha detto ridendo, “Stasera ti faccio nera!”
Ancora con quella storia? Eravamo piccoli e litigavamo sempre. Una volta cerca di colpirmi con una pallina da tennis dentro casa, ma io mi abbasso e la schivo: la pallina rompe il vetro. Lui racconta a papà che ci hanno sparato. Ma purtroppo i frammenti della vetrata sono all’esterno e mio padre non è stupido. Ci mette in punizione per una settimana: niente amici, niente tv ed è solo colpa sua. Non può passarla liscia. Mi precipito in camera sua come una furia, e decido di privarlo della sola cosa che per lui abbia un senso: il poster di Michael Jackson. Lo prendo, lo stacco dalla parete e lo faccio in mille pezzi. Lui mi guarda con le lacrime agli occhi e dice: “quando sarò grande, nel giorno del tuo matrimonio, me la pagherai.”
Era la frase di un bambino di sei anni che guardava He-Man e Skeletor tutti i giorni, ma oggi realizzo che non scherzava. E io che pensavo bastasse chiedergli di farmi da testimone per metterci una pietra sopra. Mi sbagliavo. Ma non è questo il momento di pensare a mio fratello: ora voglio godermi il momento. Morra guida canticchiando Aserej delle Las Ketchup, noto che ha i capelli tutti scompigliati: che buffo, penso sghignazzando, ma poi mi sorge il dubbio che mi sia successa la stessa cosa. Mi guardo nello specchietto retrovisore e vedo che il vento ha letteralmente distrutto la mia acconciatura, e non saprei dire se un bene o un male. Devo sposarmi santo Dio! Chiedo a Morra di rallentare. Cerco di sistemarmi facendo attenzione alla manicure, ma il risultato è quasi peggiore di quello iniziale. In quel momento, invidio mio padre che è calvo. Se ora qualcuno mi chiedesse cosa desidero, risponderei una canzone a tutto volume: The show must on. Grazie. Il cuore mi batte a mille: vedo la chiesa, gli invitati, il prete che alza le mani al cielo. La macchina si ferma davanti al sagrato con quaranta minuti di ritardo.
Scendo e vengo accolta da un mare di applausi. Qualcuno guarda l’orologio sbuffando e io mi sento morire. Poi arriva lui: il fotografo. Entra in scivolata sui san pietrini e mi scatta una bella foto dal basso. Ma appena nota il mio sandalo, va fuori di testa. Dopo diciotto scatti al mio piede destro, avrei voglia di colpirlo con il bouquet. Ha capito che sono qui per sposarmi? Ora basta, vado da Giaco, mi dico sistemandomi lo scialle. E lì, mentre il sandalo traditore mette piede sul tappeto rosso, inizia la sigla del film: la marcia nuziale. Canta il mio amico Enrico. Se non mi fosse rimasto altro che il make-up, inonderei la chiesa di lacrime: la sua voce mi commuove. Sto raggiungendo Giaco all’altare, quando vedo la mia futura suocera sbucare da dietro le sue spalle, tenendo in mano un fazzoletto. Metto a fuoco per capire che cosa sta combinando e rischio pure di inciampare. Poi capisco: sta tamponando la fronte sudata dell’uomo che sto per sposare. Mi sembra di vedere Bonolis a ‘Tira e Molla.’ Guardo mio padre per cercare conforto, ma lui sembra averne bisogno più di me: qui dentro c’è un caldo insopportabile. Percorriamo la navata con tutti gli occhi addosso, e lì, sulla destra, il banco dei miei testimoni. La Paola, la mia migliore amica, che di solito si veste di nero, oggi si è messa una camicia a fiori colorata. Non deve essere stato facile. Apprezzo lo sforzo. Accanto a lei c’è mio fratello e la sua faccia non mi piace. Cerco di non pensarci e mi concentro su Don Carlo, che mi guarda come una visione: ormai non ci sperava più.
Mio padre mi dà un bacio, sistema lo scialle di tulle sulle mie spalle che continua a scivolare, e si allontana, lasciandomi con Giaco all’altare. In effetti, sua madre ha fatto bene a tamponargli il sudore: è mezzo squagliato pure adesso. Lui mi sorride e io, con il microfono posizionato davanti a me, muoio dalla voglia di fare un annuncio per salvarlo: Don Carlo, ci sposi e facciamola finita. Si muore di caldo. Ma lui mi precede:
“Enrica e Simone: siete venuti a celebrare il matrimonio senza alcuna costrizione, in piena libertà e consapevoli del significato della vostra decisione?”
Mi domando se sia questo il momento in cui pronuncia quella frase possente che finisce con: “o taccia per sempre.” Mi ha sempre emozionato. Giaco mi stringe la mano, facendomi segno di annuire. Questo era il momento di dire sì? E io stavo pensando ai fatti miei? Uffà, devo stare più attenta.
“Sì” dico al microfono.
Faccio un breve ripasso mentale: È facile Enri: i primi ‘sì’ da dire sono tre. Tre volte sì. Okay?
Il primo l’hai detto in corsa. Gli altri falli bene: basta una risposta sbagliata per mandare tutto a rotoli. Giusto. Rimanere concentrati con una stola che continua a scivolare è impossibile, ma contro ogni aspettativa, arrivo vittoriosa al terzo sì. Ora c’è la parte più importante e Giaco ha già fatto la sua, manca poco.
“Enrica vuoi accogliere Simone – detto Giaco – come tuo sposo, promettendogli di essere fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarlo e onorarlo tutti i giorni della tua vita?”
“Sì, lo voglio.”
A portarci gli anelli è la cuginetta di Giaco, ma a questo punto, sono solo una formalità. Giaco prende il mio, lo infila al mio anulare e dice: “Enrica ricevi questo anello, segno del mio amore e della mia fedeltà.”
È fatta. Siamo marito e moglie. Recupero il bouquet ed esco dalla chiesa felice, carica di adrenalina e ignara dello scherzo preparato da mio fratello. I coni di carta azzurra che avevo fatto confezionare per il riso, e posizionati in modo delizioso davanti alla chiesa per gli invitati, ora sono pieni di ghiaia di piccolo taglio. È una lapidazione annunciata. Don Carlo indietreggia per non essere colpito, batte la ritirata, ma noi siamo costretti a uscire allo scoperto. La mia stola diventa uno scudo con cui difenderci, e dopo quattro minuti di incessanti attacchi, ne usciamo con qualche piccolo graffio. A mio fratello penserò più tardi. Ora, prima che mi caschi il trucco, sarà meglio fuggire a fare la foto. Il ristorante è a cinquanta chilometri di distanza. Un agriturismo sperduto nel bolognese che nessun satellitare è mai riuscito a intercettare. Gli invitati sbaglieranno strada almeno mille volte: è un piano infallibile per guadagnare tempo. Il fotografo ci porta in aperta campagna, in prossimità di un dirupo per catturare la luce migliore e la profondità dello sfondo, ma Giaco scivola e rischia di finire di sotto. La mia stola di tulle gli salva la vita. Io glielo ricorderò per tutti gli anni a venire. Quando arriviamo al ristorante, hanno appena cominciato a servire gli antipasti: è tutto perfetto. No aspetta, sta arrivando mia suocera: l’Alberta, seguita dal fotografo. Non avevo fatto caso all’acconciatura: ha una serie di treccine tirate indietro per aumentare l’effetto lifting. Sembra il mostro di Predator. Stesso sorriso. Vorrei indietreggiare e maledire il giorno in cui si è messa sulla mia strada. Ma oggi è solo pace, amore e chees. Sarà per la prossima volta. Ballo, canto, mi diverto. A fine serata ho sudato così tanto che il seno mi si è sciolto nelle coppe imbottite, anzi, forse è evaporato. Ringrazio Giaco che ha saggiamente deciso di prenotare una stanza in agriturismo. Salutiamo gli invitati rimasti e ci buttiamo sul letto distrutti. La mattina seguente mi sveglio con una strana ansia. Giaco sta ancora dormendo. E lì mentre guardo la mia fede al dito, scoppio a piangere. Mio marito – mi suona strano chiamarlo così – si sveglia di soprassalto:
“Enri cosa c’è?”
“Niente amore. Sono solo stanca. Sarà la tensione accumulata, la stanchezza, l’emozione… non lo so…”
“Cominciamo bene.”
Mi viene da ridere. Lui riesce a sdrammatizzare qualsiasi cosa. E in fondo, ha ragione: abbiamo tutta la vita davanti e un bellissimo viaggio di nozze che ci aspetta. La nostra avventura è appena cominciata.
Illustrazione: Valeria Terranova