ono anni che simulo interviste, in cuor mio ho sempre saputo che qualcuno, prima o poi, mi avrebbe fatto domande.
E seppure, ogni tanto, abbia pure considerato l’ipotesi di un interrogatorio in commissariato — un giorno di ordinaria follia può capitare a tutti — la verità è che oggi sono i giornalisti a interessarsi a me. E sono certa che la prima cosa che si chiedono è: ma questa da dove arriva?
Simulazione.
“Chi sei? Cosa fai? Da dove vieni?”
“Ciao a tutti sono Enrica Alessi, ho quarantadue anni e sono una scrittrice.
Vengo da Chiozza, un paesino di campagna simile a Tara di Via col vento — Rossella O’Hara aveva Tara, io ho Chiozza.
Il verde delle campagne, il profumo di erba tagliata, le montagne di escrementi animali… che poesia.”
Chi ho di fronte, nemmeno si squassa, va avanti come un treno: “Colore preferito?”
Che domanda è? Rispondo lo stesso:
“Il bianco. Lo so che è difficile da credere, specie se ci si ferma su Instagram a dare un’occhiata ai miei look che sono tutti colorati, ma per deformazione professionale, mi sento bene nella veste di foglio bianco da riempire di parole.”
Neanche questa similitudine le provoca emozioni, il suo sguardo impassibile resta fisso sul pezzo di carta su cui ha scritto le domande.
“Piatto preferito?”
Il tono dell’intervista sta precipitando, ma la domanda è divertente: rispondo.
“Spaghetti alle zucchine della Cambusa.
Come ho già dichiarato in un mio precedente scritto, li mangerei mattina, mezzogiorno e sera. Anche a merenda.”
“Brava! Abbiamo l’ultima domanda: favola preferita?”
Mi sforzo di trattenere una risata.
“Carola questa domanda è impossibile: deve sembrare un’intervista vera, non puoi chiedere alla mamma la sua favola preferita…”
“Mi hai chiesto tu di allenarti, e sono io che faccio le domande, tu devi rispondere.”
Ha ragione: non esistono domande impossibili, devo essere pronta a tutto. E io sono nata per essere pronta a tutto: è scritto anche sulla copertina del libro.
“Okay, seguiamo il tuo metodo.”
Carola è soddisfatta: il suo parere conta ancora qualcosa. Riprende fiducia e l’autorevolezza che ho interrotto poco fa, per porgermi di nuovo la domanda:
“Favola preferita?”
Tutti abbiamo una favola che ci rappresenta, una storia che simboleggia un pezzo di vita vissuta… ma perché non me ne viene in mente nessuna?
“Mamma?”
“Ci sto pensando… ce ne sono così tante…”
Carola ha un’espressione traducibile in: ‘ho undici anni e avrei di meglio da fare, muoviti’.
“Okay, ce l’ho: La lepre e la tartaruga.”
“È della Disney?”
“No amore… la storia è profonda, ma un po’ troppo breve per farci un film, anche se, anche se… con una sceneggiatura potente — che tua madre sarebbe assolutamente in grado di scrivere — potrebbe diventare un successo.
La condirei con colpi di scena, scaverei del passato burrascoso della lepre e della tartaruga e… ho deciso: scriverò alla Disney!”
Carola mi guarda come si guarderebbe uno squilibrato: e un po’ la capisco.
“Stavo scherzando…” mormoro.
“Posso andare a fare il bagno?”
Pare che la simulazione sia finita. La congedo con un bacio e resto lì, seduta sul lettino con i miei pensieri, le mie favole, le mie metafore.
Perché tra tutte ho scelto questa?
La risposta è fin troppo ovvia: perché mi ci rivedo: io sono una ca**utissima tartaruga. E non me faccio un cruccio.
La lepre e la tartaruga altro non è che la versione occidentalizzata di ‘Il leone e la gazzella’. Se ogni mattina, in Africa, una gazzella si sveglia e sa che deve correre più in fretta del leone o verrà uccisa, la tartaruga no: anche se va piano, non rischia la vita.
Seppure l’idea di nascere lepre — o leone, a seconda della latitudine — possa sembrare allettante, essere tartaruga e assaporare la vittoria piano piano — come la sua andatura — può dare grandi soddisfazioni. O sto solo cercando di giustificare i miei fallimenti?
In questi anni, sono arrivata alla conclusione che Dio voglia punirmi per l’eccesso di rapidità con cui faccio gran parte delle cose. E come lo fa? Compensando con una calma snervante che rallenta la mia capacità di apprendimento — specie nello yoga — e inevitabilmente, i tempi di raggiungimento dei miei obiettivi. È un po’ come se volesse ricordarmi che qui è Lui che comanda e che la fretta, per certe cose, non va bene.
Quella lentezza che all’inizio avevo tradotto come un castigo divino, oggi la vedo come un’opportunità, un’occasione per riflettere e avere una strategia.
Ho imparato che non importa se sei leone o gazzella, lepre o tartaruga, appena sveglio, comincia a correre, ma non dimenticare che ogni cosa importante ha bisogno dei suoi tempi. Lo sanno tutti che nella vita ci vuole calma e sangue freddo. E seppure per le suddette caratteristiche, la tartaruga sia avvantaggiata, non posso fare a meno di chiedermi: cosa ne sarebbe stato della mia favola, se la lepre non si fosse addormentata?
Per oggi, con in ragionamenti impegnati direi che può bastare. Guardo Carola fare il bagno, sta battendo il suo record di capriole subacquee, le piace quando la guardo, quando applaudo, quando la incito. Mi sorride.
Nuota, raggiunge il lettino su cui sono seduta, prende fiato e dice: “Mamma, dovremmo adottare una lepre: a Chiozza ce ne sono tantissime…”
Ha la faccia di chi mi prende in giro.
“E se invece adottassimo una tartaruga?”
“Davvero? Possiamo?” chiede eccitata.
“No, scherzavo.”
Illustrazione: Valeria Terranova