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9 Nov

From Japan With Love

storie di ordinaria follia

enrica alessi storie di ordinaria follia

D

opo ventisette ore di sonno in sei giorni, un volo di rientro che ne dura dodici è quello che ci vuole per una bella dormita. Io e Anto, che all’andata eravamo vicini, al ritorno abbiamo i posti assegnati accanto al finestrino, lui è davanti, io dietro. Il capitano si annuncia, si presenta e comunica che a causa del maltempo su Milano, dei venti a sfavore e di una forte perturbazione prevista sulla Siberia, il volo durerà quattordici ore: sono disposta a tutto pur di riuscire a schiacciare un pisolino come si deve. È così sia. Sono le tre del pomeriggio e la hostess si presenta sorridente con un calice di champagne. Mi alzo in piedi, mi tolgo gli occhiali da sole e guardo con sufficienza ciò che ho davanti.
“Non farmi ridere…” vorrei dirle.
Forse non ha capito, ho bisogno di qualcosa di forte che mi faccia cadere al tappeto e un calice di quelli con ghiaccio e vodka potrebbe essere la cosa giusta. La hostess mi guarda basita, si allontana e ritorna un minuto più tardi con ciò che le ho chiesto: ammetto che è stata particolarmente generosa. La ringrazio, mi allaccio la cintura e mi faccio il primo goccetto, mentre guardo fuori dal finestrino. L’aereo si mette in marcia, le ali sono appena dietro di me, vedo i motori, vedo il personale che lavora sulla pista, tra poco arriverà il momento di decollare e mi restano pochi minuti per finire il bicchiere. Non sarà troppo? Mi chiedo guardando ciò che avanza, ma l’idea di dormire, quella del lungo viaggio e quella della perturbazione annunciata sopra la Siberia mi dicono che si può fare: quattro sorsi abbondanti e la vodka è finita. Giusto in tempo. Mentre l’aereo decolla, penso a tutte le cose belle: a Giaco, alle bimbe, mi scendono le lacrime, non riesco a frenarle, sorrido immaginando il momento in cui li rivedrò, ma quattordici ore per aria sono pur sempre quattordici ore per aria: chiudo gli occhi, prego e quando li riapro, mi sento un’altra. È come se l’alcol avesse trovato il volume dell’euforia e di colpo avesse deciso di metterlo al massimo, senza preoccuparsi delle conseguenze: lo show ha inizio. Mi slaccio la cintura e mi affaccio sul sedile che ho davanti, accarezzo la nuca di Anto che, nel frattempo, si sta complimentando con una delle hostess per l’eleganza della divisa.
“Dovresti regalarle uno dei tuoi abiti…” suggerisco ridendo.
Poi, mi rivolgo a lei: “Deve sapere che il mio amico in Italia non vende moltissimo, ma in Giappone è come Bono degli U2.”
Tutti ridono, io più di loro. Anche una coppia distinta di signori che sta seduta dietro di noi ci guarda divertita. Ci chiedono cosa vogliamo per pranzo, Anto, come al solito, cerca di trattenersi.
“Devo perdere dieci chili: questo no, questo no, questo no…”
Io lo interrompo.
“Può portargli tutto invece, perché se non glielo porta, tra dieci minuti le dirà che ci ha ripensato… io lo conosco.” dico strizzandole l’occhio.
Non può contraddirmi: sappiamo tutti e due che in merito al cibo, cambia idea ogni tre per due. L’attimo prima lo vedi dichiarare guerra al carboidrato, l’attimo dopo, è convinto che senza non si possa vivere.
“Per lei invece?” mi chiede la hostess.
“Io prendo tutto quello che c’è di vegetariano nel menu.”
“E da bere?”
Mi sta sfidando?
“Un moscow mule?”
Uso la forma interrogativa, come se implicitamente le stessi chiedendo: non ho già dato?
“Perché no…” risponde lei.
Forse ha ragione: posso dare di più. Il Moscow Mule non lo vedo nemmeno, appena mi sdraio, perdo i sensi. Mi sveglio cinque ore più tardi, non ho nemmeno il cerchio alla testa, mi sento fresca e riposata come non mi sentivo da giorni, ma appena sollevo lo sguardo per controllare Antonino, mi accorgo di una hostess che è in ginocchio di fianco a lui, che gli tiene la mano. Cosa mi sono persa?
“Non mi lasci la prego, non mi lasci…” lo sento implorare.
Cerco di slacciare la cintura per raggiungerlo, ma non ci riesco, è in quel momento che mi accorgo che la mia prontezza di riflessi lascia un po’ a desiderare. Non importa: il mio amico ha bisogno di me e devo raggiungerlo.Faccio scivolare le gambe sotto la cintura, mi libero e mi avvicino alla hostess per capire cosa sta succedendo.
“Enri…”
La sua faccia? Sembra che abbia appena visto una Madonna.
“Tesoro cosa c’è?” gli chiedo preoccupata.
“Questo aereo sta per cadere, non senti i vuoti d’aria? Le turbolenze? Io non voglio morire!”
Morire? Vuoti d’aria? Turbolenze? Io non sento niente, giusto questo strano coraggio provocato dagli effetti dell’alcol. La hostess continua a tenergli la mano, lo rassicura dicendogli che non c’è nulla da temere, ma sembrano parole buttate al vento. Credo che abbia bisogno di qualcosa di concreto per convincersi. Mi avvicino al finestrino per valutare di persona la gravità della situazione. Sotto di me, c’è una catena di montagne innevate e in quel momento ricordo l’annuncio iniziale del comandante, mi ricordo della Siberia e della perturbazione prevista che inconsciamente temevo dall’inizio. Forse ignoro che la vodka ha leggermente distorto la mia percezione della realtà, eppure mi sembra tutto normale. Mi avvicino di nuovo alla hostess con un espressione traducibile in: a bella, levate, questo è l’amico mio, ci penso io a lui. Ma il terrore che vedo negli occhi di Anto mi fa capire che devo usare un po’ di delicatezza.
“Anto, tesoro…”
“Enri aiutami…” dice disperato.
Certo: sono qui per questo.
“Le vedi quelle montagne laggiù?”
Antonino rimane ancorato ai braccioli della poltrona, ma trova il coraggio di voltarsi e di guardare in basso.”
“Sì…” risponde titubante.
“Bene: quella è la Siberia, giusto?” chiedo alla hostess per conferma.
Lei annuisce.
“Appunto, se anche l’aereo dovesse cadere su quelle montagne, la temperatura sarebbe così bassa che moriremmo sul colpo: non c’è niente di cui aver paura…” dico con un sorriso rassicurante.
Antonino butta la testa dall’altro lato con rassegnazione, la hostess mi fulmina con lo sguardo e mi intima di sedermi: e io che credevo di aver detto la cosa giusta.
Un attimo dopo, si accende una spia rossa, la hostess abbandona il suo posto da crocerossina e scompare dietro la tenda che ci separa dalla zona riservata al personale.
“Perché sta andando via? Perché mi lascia qui da solo?” chiede lui in preda al panico.
D’istinto mi concentro sulla coppia di signori che siede dietro di noi: continuano a mantenere una posizione decorosa, sembrano tranquilli e se loro sono così senza aver bevuto, credo di potermi fidare.
“Anto, stai tranquillo…” bisbiglio. “Vedrai che andrà tutto bene.”

Otto ore dopo, atterriamo sani e salvi. Sono pure riuscita a consumare la cena che avevano servito mentre stavo dormendo e dopo aver recuperato i bagagli a mano, ci mettiamo a ridere ripensando al teatrino che abbiamo messo in scena in modo del tutto involontario. Ci infialiamo la giacca e usciamo dall’aereo. Anche se non lo stiamo facendo ad alta voce, sono certa che entrambi stiamo ringraziando lui e il comandante per averci condotto fino a casa. Da questa esperienza, tutti ne abbiamo tratto beneficio: la hostess riceverà un abito di Antonino, Antonino comincerà la dieta e io ho finalmente trovato la cura infallibile con cui sbarazzarmi della paura di volare: un calice di vodka, né più, né meno.

Illustrazione: Valeria Terranova