on mi sono ricoperta di paillettes per svenire e cadere rovinosamente sul pavimento di un ristorante di Forte dei Marmi: il mio amor proprio me lo impedisce.
Fingo di ignorare quell’immagine che mi sbriciola il cuore, ma non so come reagire.
È come immaginavo: non l’ho avvertito e ha lasciato l’appartamento in disordine.
E adesso? Che dovrei fare? Raggiungerlo, insultarlo, rendermi ridicola davanti a tutti? Non mi ci vedo.
Credo sia più opportuno concedermi qualche secondo per fotografare mentalmente quei due corpi che si stringono, guardandosi con aria complice e divertita: a questo penserò quando quel verme mi mancherà.
Un altro tradimento, un altra sconfitta.
Le Lego Friends non finiscono mai.
Mi domando chi possa essere, ma forse non è così importante: vorrei solo prenderla per i capelli.
Gli occhi non riescono a smettere di fissarlo, soffro, non reggo.
Mi guardo attorno cercando chissà che: una spalla su cui piangere, un macete, qualcuno che conosco. Nessuno, non conosco nessuno, e nessuno saprà mai che sono stata qui.
Sento crescere la rabbia, è difficile trattenerla: ora capisco cosa prova Bruce Banner prima di diventare Hulk. Ma un attimo dopo, ho solo voglia di piangere, di sparire. Devo uscire da qui. Adesso.
Dimentica il suo profumo, il suo sorriso, le fossette e pure il sesso tantrico. Sopravviverai.
Giro i tacchi, mi precipito verso l’uscita, ma prima di arrivare alla porta, mi trovo di fronte alla bionda nel cassetto.
“Ciao Camilla!” dico sorpresa.
“Ciao Eva! Alla fine ce l’hai fatta a venire…”
Lei è più sorpresa di me.
“Sì, ma stavo per andarmene, non mi sento bene.”
“Paolo ti ha vista?”
No. Paolo sta ballando con una brunetta e pare che abbia occhi solo per lei.
“Io devo andare, salutalo tu da parte mia.”
Afferro la maniglia e sono fuori, fuori dalla sua vita.
Il cielo stellato che sta sopra di me pare voglia offrirmi la luce migliore per uscire di scena, ma è una magra consolazione: sono una stupida illusa, e io che credevo potesse funzionare. Accelero il passo verso l’auto, ma continuo a sperare che lui esca di corsa per raggiungermi. Mi volto un’ultima volta: Paolo non c’è.
Respiro. Trattengo le lacrime. Prendo le chiavi nella borsa, il pollice preme il telecomando: la macchina si apre.
“Eva!”
La sua voce, un brivido. Mi volto.
“Mi fai una sorpresa e non corri ad abbracciarmi?”
Apre le braccia mentre lo dice, ma non è il gesto di chi vorrebbe spronarmi a farlo, sembra deluso.
Lui? E io che l’ho appena visto strofinarsi con un’altra? Che faccia tosta. Se non fosse per le paillettes, lo prenderei a borsettate.
“Torna a ballare con la tua ragazza.” dico sprezzante.
Salgo in auto, accendo il motore, controllo lo specchietto retrovisore per mettermi in strada e vedo Paolo correre verso la sua auto. Sale, i fari si accendono: questo è il mio primo inseguimento.
Semaforo verde, via.
In momenti come questo, la razionalità va a farsi friggere, l’orgoglio ferito spegne il lume della ragione. Ha lasciato la brunetta al ristorante, è uscito a cercarmi e ora mi sta rincorrendo, forse dovrei ascoltare ciò che ha da dire. Ma i miei occhi non dimenticano ciò che hanno visto, niente potrà farmi cambiare idea, e la cosa più assurda è che le spiegazioni che ora non voglio stare a sentire mi tormenteranno per l’eternità. Chi era quella?
E se fossi solo curiosa di sapere quanto è disposto a correre per me? Giro a sinistra senza mettere la freccia, ma la mia guida è prevedibile: Paolo è ancora dietro di me.
Un altro semaforo, poi sarò arrivata in albergo. Già penso alla scena del nostro faccia a faccia. Potrebbe avere una buona ragione per giustificare quel ballo proibito. O una buona scusa.
Il giallo sta diventando rosso, un riflesso incondizionato mi fa spingere il piede sul gas, attraverso, Paolo è costretto a frenare e a fermarsi.
Mi allontano, la sua auto diventa sempre più piccola. E mentre realizzo che sto per seminarlo, lo stesso riflesso incondizionato di poco mi fa staccare il piede dall’acceleratore: voglio aspettarlo. Ma ho preso troppa distanza, non lo vedo più.
E ora? Tutto quello che dobbiamo dirci?
Per tenerlo d’occhio, ho pure sbagliato strada. Accosto, cerco un punto di riferimento per capire dove sono finita. Devo fare inversione e girare a destra tra un paio di traverse. O erano tre?
Come prevedevo, il mio senso dell’orientamento fallisce. Mi perdo quattro volte prima di trovare l’albergo, e ora che sono arrivata, non c’è nessuno ad aspettarmi.
Scendo dall’auto, nonostante l’insegna dell’hotel illumini la via che ora riconosco, mi sento smarrita. Apro la borsa, prendo il telefono sperando di trovare una sua chiamata, un suo messaggio, ma niente.
Sento un rumore provenire da una siepe, mi volto di scatto, ma è solo un gatto, e quella speranza, unita al fruscio delle paillettes dell’abito, mi fa sentire ancora più patetica.
Dunque finisce così? Nessun faccia a faccia? Nessuna spiegazione?
I miei occhi fissano il telefono: la tentazione di chiamarlo è forte, ma se lo facessi, anche la mia fuga sembrerebbe patetica.
Parcheggio l’idea e il telefono nella borsa, guardo avanti cercando di stimare il numero di passi che mi ci vorranno per raggiungere la hall, e nonostante il forte desiderio di ritardare il momento che non vorrei vedere giungere, mi incammino con passo deciso. Infilo la mano nella tasca della giacca per recuperare la chiave della mia stanza, ma non la trovo.
Eppure ero sicura di averla messa qui.
Mi fermo, perlustro la borsa, controllo ogni angolo: di lei nessuna traccia.
“È questa che stai cercando?”
Dal lato opposto della strada, qualcuno si avvicina mostrandomi quella che — da qui — sembra essere una chiave.
La luce del lampione lo illumina e appare Paolo con le sue cinquanta sfumature di grigio brizzolato: me lo ricordavo più brutto.
Soffoco quella punta di eccitazione, concentrandomi sul sapore da dare a questa conversazione: deglutisco, ma le papille gustative non suggeriscono nulla.
“Puoi dirmi che diavolo ti prende?” mi chiede.
Sono io che faccio le domande qui.
Primo, come hai fatto a trovarmi?
Questa la so: sulla card c’è il nome dell’albergo.
Secondo, da dove diavolo sei uscito?
Ma è solo la terza che pronuncio ad alta voce: “come fai ad avere tu la mia chiave?”
“Me l’ha data Camilla, l’hai persa mentre stavi uscendo dal ristorante. È corsa da me, mi ha detto che eri qui.”
Mi sembra chiaro che la bionda nel cassetto non sia più una minaccia.
“Dammela subito.” dico secca.
“Salgo con te.”
“Non se ne parla.”
“E invece ne parliamo: arrivi, fuggi via, l’inseguimento in macchina, vuoi farmi venire un infarto?”
Io stavo quasi per svenire, cosa crede?
I suoi occhi sembrano divertiti, pare che abbiano intuito la mia domanda tacita e mi guardano con un’espressione traducibile in: ora sei contenta? Hai visto quanto sono disposto a correre per te?
Ma leggo anche una punta di rimprovero nelle sue parole. Per la prima volta, mi sorge il dubbio che la mia valutazione sia errata. E se avessi frainteso?
Si avvicina, il mio stato d’animo assume lo stesso effetto delle paillettes che indosso: non prende una direzione precisa, non sa dove andare.
“Chi era quella?” gli chiedo
“Vuoi parlarne qui?”
Annuisco.
“Quindi non mi fai salire?”
Me lo sta chiedendo con aria di sfida.
E non solo: si abbassa, allarga la braccia per avvolgere le mie ginocchia e mi solleva caricandomi in spalla.
Sono un sacco di patate, sobbalzo, vedo tutto sotto sopra. I suoi passi si muovono verso il parcheggio dell’albergo e ciò suggerisce una cosa soltanto: si introdurrà in camera mia con la forza, e ammetto che, sotto un certo aspetto, la situazione inizia a farsi interessante.
Ma mi sbaglio, va dritto verso la sua auto per portarmi da qualche parte: è il mio primo rapimento.
“Mettimi giù.” grido agitando le gambe.
Lo dico quasi da copione, non vorrei che lo facesse. Ora voglio sapere come va a finire.
“Dobbiamo parlare e visto che non mi fai salire, ti porto a casa mia.”
Se è lì che stiamo andando, significa che nonostante non mi aspettasse, l’appartamento è in ordine, all’improvviso, divento collaborativa.
“Okay, ma mettimi giù.”
Paolo mi fa scendere, il mio campo visivo si aggiusta, apre la portiera e mi fa salire.
Ci allacciamo le cinture, partiamo, è lui a parlare per primo.
“Ci sono un po’ di cose che non capisco, forse puoi aiutarmi…”
Ma pensa: se avessi iniziato io, credo che avrei scelto le stesse parole. La sola differenza è che il mio tono di voce sarebbe stato un tantino più agitato, il suo, invece, sembra calmo e sicuro.
Per qualche strana ragione, è come se i ruoli si fossero invertiti: ora sono io a sentirmi sotto accusa.
“Mi pare di capire che volessi farmi una sorpresa, o mi avresti avvertito, ma il fatto che tu abbia prenotato una camera d’albergo mi lascia un po’ perplesso: mi chiedo se questa decisione non sia stata presa per mancanza di fiducia…”
I miei occhi guardano in basso, non troverò mai il coraggio di contraddirlo, ma non ero io che stavo ballando un lento con un’altra, e la parte finale dell’abito, che mi copre a mala pena le ginocchia, mi suggerisce la battuta migliore.
“La tua intuizione è giusta, volevo farti una sorpresa, se ti avessi avvisato non ci sarei riuscita. E di certo non avrei potuto mettermi in viaggio con un abito ricoperto di paillettes.” dico in tono provocatorio. “Ho preferito prenotare una stanza in cui potermi preparare con calma, ma nonostante avessi pianificato ogni dettaglio di questo capodanno a sorpresa, arrivo alla festa e ti trovo tra le braccia di un’altra. Buffo eh?”
“Aspetta: questa tua gelosia ingiustificata mi fa piacere, ma ci sono un paio di cose che vorrei sottolineare.”
Sta solo prendendo tempo e io sto andando su tutte le furie.
“Mi tagli fuori dalla tua vita, parti per una vacanza con la tua famiglia, mi rassicuri dicendomi che è solo una formalità, che lo stai facendo per il bene di Sofia, che non dovrò dividerti con nessuno…”
Anche lui sembra arrabbiato, e aggiungo che fino a qui non ha sbagliato una virgola, quasi quasi lo lascio continuare.
“E poi vedo la foto.” aggiunge. “La foto che posta il tuo ex marito in cui dice che ama la sua famiglia…”
Rimango di sasso. Non ci sono dubbi, ha visto la foto, tutte le carte sono sul tavolo.
“Se ora sono qui, mi pare che non significhi nulla.” ribatto prontamente.
Il suo sguardo abbandona la strada per un attimo, resta fisso su di me, mi osserva con attenzione. Con la stessa attenzione, parcheggia l’auto in prossimità del marciapiede che costeggia casa sua. Il motore si spegne, mi invita a entrare.
Paolo apre la porta, mi cede il passo e accende la luce: non c’è nulla fuori posto, solo il suo profumo, che continua a destabilizzarmi.
“La ragazza con cui stavo ballando è la moglie di Celiane.” mormora.
Sì certo. E io sono Mago Merlino.
“Ah sì? Puoi provarlo?”
“Vuoi tornare alla festa? Posso presentartela…”
I nostri modi indisponenti non ci porteranno da nessuna parte, eppure se siamo qui a parlarne, qualcosa vorrà dire.
“E come si chiama?”
Non so nemmeno perché gli faccio quella domanda, forse perché ho bisogno di capire il suo coinvolgimento emotivo.
“Si chiama Mia e aspetta un bambino.”
Mia: anche lei ha il nome di una Lego Friends, ma questa è innocua, lo so.
“Il nome è carino, ma non mi è piaciuto vederti ballare con lei.” sussurro.
“Anche a me non è piaciuto vederti sorridere tra le sue braccia.”
Un istante di silenzio che sembra durare molto di più: il tempo necessario per mettere entrambi sullo stesso piano. Un istante di silenzio per placare gli animi e metterci davanti all’evidenza che siamo ancora noi, che nonostante tutto, niente è cambiato.
“Non è una situazione facile.” aggiunge. “Specie perché non ho ancora capito quale posizione occupo nella tua vita, ma so che ti amo e che non posso vivere senza averti al mio fianco.”
Non avevo previsto l’inseguimento e neppure il rapimento, nel profondo del mio cuore, però, speravo che potesse finire così.
Ora sono io che mi avvicino a lui, la paura è scomparsa, resta solo la voglia di fargli capire che i miei sentimenti assomigliano ai suoi — in chiave femminile — ma c’è una cosa che, più di tutte, merita di essere chiarita.
Stringo i pugni, prendo coraggio, alzo gli occhi verso i suoi e dico: “se non hai capito che posizione occupi nella mia vita, la colpa è solo mia. Ti ho messo io in una situazione difficile…”
Cerco di continuare, ma la verità è che i suoi occhi mi divorano. Le sue braccia mi afferrano, mi stringono, la sua bocca avida raggiunge la mia e la razionalità perde la bussola un’altra volta.
Che importa se non ricordo più il resto del discorso? Le parole non servono più.
Forse, ciò che avevamo da dirci è già stato detto. Forse, ciò che resta da aggiungere può essere espresso in un modo soltanto.
Le sue mani raggiungono la lampo del vestito che scivola via da me e cade a terra: è solo un pezzo di stoffa scintillante a cui ho dato più importanza di quanto meritasse.
Le sue labbra abbandonano le mie, si spostano sul collo, sul petto. Ansima lui, ansimo io. Le mie mani stringono il suo viso, bramo i suoi baci, bramo il calore del suo corpo. Si abbassa, mi prende in braccio e mi conduce in camera da letto.
“Dimmi che sei mia.” sussurra.
“Dimmi che sei mio.”
La porta si chiude, la luce è spenta. Il buio avvolge i nostri corpi quanto le lenzuola che portano il suo profumo.
Saranno appena le dieci, ma per noi è già capodanno, e i fuochi d’artificio che avevo immaginato, per una volta, corrispondono alla realtà.
QUARANTAQUATTRESIMO EPISODIO
Illustrazione: Valeria Terranova