ra un concentrato di terrore puro, un film che avrebbe lasciato un segno indelebile nella cinematografia horror: L’Esorcista. E quando uscì, nel 1973, la gente, curiosa di assistere a un tale capolavoro, si precipitò nelle sale e altrettanto velocemente fuggì — a metà proiezione — atterrita dalle immagini. Ma la paura è un’emozione innata nell’uomo e riguarda tutte le fasi della sua vita, soprattutto l’infanzia. Quando l’Esorcista mise piede nel piccolo schermo, avevo nove anni e vivevo con i nonni. Avevo visto la pubblicità, era palese che non fosse un film adatto a me, ma Regan, la bambina posseduta con la camicetta da notte azzurra, la voce di Sandro Ciotti, i capelli arruffati e il colorito verdastro mi attraeva più del vasetto di Nutella. Lei era il diavolo, o almeno era ciò che sosteneva, ma non mi sarebbe bastato uno spot televisivo per farmi un’idea, dovevo vedere quel film e avrei fatto qualsiasi cosa di pur di riuscirci. La nonna era il vero osso duro, se avessi convinto lei, anche il nonno non avrebbe obbiettato. Lei aveva diversi hobby che coltivava, alternandoli, tutto il giorno, tutti i giorni. Il ciclismo la mattina per raggiungere la bottega e fare la spesa; la cucina — con specializzazione in tagliatelle e tortellini grandi come tortelloni — e la preghiera. La nonna pregava sempre, mattina, mezzogiorno e sera, leggeva la Parola di Vita ed era un’assidua ascoltatrice di Radio Maria. Era addirittura sul punto di vincere maglietta e cappellino, insomma, per intenderci, era la cosa che prendeva più seriamente — dopo i tortellini — ed era l’unica cosa su cui potevo fare leva. Entrai in cucina: il tagliere sul tavolo, la radiolina alle sue spalle, il matterello tra le mani. Mi avvicinai al recipiente del pesto, affondai il dito per rubarne un po’ e lo misi in bocca aspettando la sua frase di rimprovero.
“Eh no! Lo sai che non si fa!”
Tutto stava andando secondo i piani.
“Nonna…”
“Sì cocca…”
“Stasera c’è un film che vorrei vedere.”
“Domattina vai a scuola, non puoi andare a letto tardi.”
“Lo so, ma parla della storia di una bambina e di un prete… lo posso vedere?”
La nonna si emozionò. Aveva tradotto la mia motivazione ingannevole come la genesi di una vocazione annunciata. E non avrebbe mai ostacolato il cammino spirituale di sua nipote. Chiuse il tortellino premendo il pollice sull’indice, ripose sul cabaret di carta la sua piccola creazione e disse:
“Sì cocca, lo puoi vedere. Però finisci i compiti, tra poco si cena.”
Un altro modo di dire: prima il dovere, poi il piacere, ma ci ero riuscita. Il senso di colpa non si fece nemmeno sentire. Ero eccitata, curiosa, spaventata. Non sapevo che stavo sfidando la paura e che lei avrebbe indubbiamente vinto, ma volevo testare il mio coraggio, spinta dalla curiosità di stabilire quanta percentuale di ‘adulto’ ci fosse in me. La nonna sparecchiò la tavola, io rimasi seduta a chiacchierare con il nonno.A lui non feci parola del film, non volevo intralci. Da lì a poco, i nonni sarebbero andati in camera a leggere, come facevano tutte le sere prima di dormire, io sarei rimasta da sola in salotto e il film sarebbe cominciato. Andò più o meno così. Mi ritrovai sola sul divano, davanti alla TV con la colonna sonora dell’inizio che definire inquietante sembrava riduttivo. Pianoforte, xilofono, batteria elettronica: oggi lo so, ma quella sera, mi fermai al piano, poi mi tappai le orecchie. Mi ero già pentita di aver raccontato quella mezza verità, se la nonna avesse saputo in che razza di guaio mi stavo cacciando, non mi avrebbe mai dato il suo consenso. Rimpiansi quel divieto provvidenziale, ma ero troppo testarda per tornare sui miei passi e nonostante la forte tentazione di correre nel mio letto e aspettare di compiere altri dieci anni, mi sforzai di tenere gli occhi aperti e lo guardai, lo guardai fino a esaurire ogni singola scorta di sangue freddo. Il film mi sconvolse e la bambina posseduta continuò a perseguitarmi, anche quando, alla fine della quarta elementare, lasciai i nonni per raggiungere i miei genitori che si era trasferiti per lavoro. Mi seguì pure nella nuova casa che aveva un solaio, un solaio come quello del film in cui tutto era cominciato. Ancora oggi, ritengo che aiutare la mamma a stendere i panni in quel luogo tetro e poco illuminato, sia stato uno dei compiti più difficili della mia adolescenza. Al solo pensiero, sento i brividi corrermi lungo la schiena. La storia del bene e del male e il grande senso di impotenza nei confronti di ciò che riguarda forze più grande di me non mi avrebbe mai abbandonato. E oggi, che sono mamma non posso fare a meno di chiedermi: come avrà fatto la madre di Linda Blair ad accompagnare sua figlia al provino?
“Dove mi porti mamma?”
“A fare un provino.”
“Per quale film?”
“L’Esorcista.”
“E cos’è?”
“Te lo spiega il regista. Andiamo.”
Le cose devono essere andate più o meno così. Ma è anche vero che se ciò non fosse successo, oggi non staremmo a parlare di un classico del cinema horror, il film più spaventoso di tutti i tempi.
Illustrazione: Valeria Terranova