6
Apr
l mio veterinario è differente.
Non assomiglia a quello dell’amaro Montenegro, non va sui monti a salvare gli stambecchi, non credo nemmeno che abbia un sidecar, ma quando c’è bisogno, so sempre dove trovarlo.
Si chiama Franco, lo conosco da vent’anni, da quando ho iniziato a pensare io stessa ai miei animali.
Speedy aveva un problema al cuore, Rhett era un vero duro che combatteva per amore e Vinicio, il gatto della mia tarda adolescenza, battezzato con il nome di un caro amico, era un figo di quartiere — non sterilizzato.
Sono cresciuta con la convinzione di possedere un dono: prendermi cura degli animali che non avevano più una casa e se Dio li faceva capitare davanti alla mia, non era per caso.
Una volta trovai un piccione malconcio, decisi di dargli un nome ugualmente: lo chiamai Arnaldo, poi telefonai a Franco.
“Com’è?” mi chiese.
“Se ne sta lì: mogio, mogio. Ha l’occhio un po’ spento e fatica a stare in piedi.”
“Enrica… chiama la LIPU…”
“No, lo porto da te.”
“Ma con gli uccelli c’è un’altra procedura.”
“Me ne frego della procedura.”
Un’altra volta, trovai una gatta che non sembrava avere molte speranze, ma volevo che Franco la visitasse, che le desse una possibilità.
Ero riuscita a farla entrare in una gabbietta, l’avevo caricata in auto e durante il tragitto verso la clinica, cercai di rassicurarla raccontandole che il dottore da cui la stavo portando, nonostante avesse più la faccia dello scienziato pazzo, che del veterinario con la testa sulle spalle, l’avrebbe aiutata a stare meglio. Ci presentammo in sala d’aspetto, Franco arrivò poco dopo, mi raggiunse, diede un’occhiata alla gatta che era ancora dentro la gabbia e disse: “Enrica…”
La profonda desolazione con cui fece uscire il mio nome dalla sua bocca, lasciava intendere che la mia diagnosi non fosse sbagliata.
“Dove l’hai trovata?”
“Sotto casa.”
“Sai che nove persone su dieci si sarebbero voltate dall’altra parte, lasciando al ciclo della vita il compito di trovare una soluzione?”
“E invece oggi è la tua giornata fortunata. Affido a te questa grande opportunità: salvala.”
Franco rimase in silenzio per un po’. Afferrò la gabbietta e mi fece segno di seguirlo nel suo ambulatorio, domandomi se, per caso, ogni tanto sentissi le voci.
Risi, ma riuscimmo a salvarla, anche se ci vollero mesi di terapia, e quella gattina divenne la mascotte della clinica.
Tobia arrivò qualche mese più tardi.
Era un cucciolo che io e Giaco avevamo ricevuto in regalo a inizio convivenza, era il nostro primo figlio.
I suoi erano controlli di routine, ma ogni volta che Tobia arrivava in ambulatorio, lui lo chiamava ‘bella’.
Come sei bella. Bella vieni qui. Bella andiamo a fare un prelievo.
“Franco… Tobia è un maschio.” sottolineavo, ma lui niente.
Forse era il suo aspetto elegante a trarlo in inganno o forse il suo nome, che finiva con la lettera A, ma l’idea sessuale che Franco si era fatto del mio cane non cambiò mai nel corso degli anni, anche quando Tobia divenne adulto con problemi alla prostata. E se non era riuscito a convincerlo una prostata, forse Tobia sarebbe rimasto ‘bella’ per sempre.
Mi ha sempre fatto sentire parte dell’equipe medica, mi chiedeva di indossare il camice e di assisterlo, insegnandomi a medicare e a intrattenere i pazienti che gli portavo, che immancabilmente tentavano di morderlo, qualche volta con successo.
Oggi è il mio consulente, gli scrivo di notte, in cerca di informazioni riguardo al romanzo che sto scrivendo e quando i lettori si complimentano, chiedendomi se anche io abbia una laurea in materia, rispondo che il merito è suo.
Cosa volevo fare da grande?
La veterinaria.
Le cose sono andate in modo diverso, ora sono quella che scrive del mio veterinario e forse è meglio così. Come si dice?
A ognuno il suo.
Illustrazione: Valeria Terranova