on ricordo tutto del mio esame di maturità, ma i fatti salienti, i più importanti, che segnarono la mia sorte, sono limpidi, cristallini. I presupposti lasciavano un po’ a desiderare, il mio prof di italiano mi detestava, e in classe, aveva preso l’abitudine di chiamarmi con un nome diverso, un nome, che a suo avviso, mi rappresentava di più: per lui ero Wanda Osiris. Non avevo i suoi capelli ossigenati, non indossavo i tacchi, le paillettes, le piume e le rose che la tramutarono in leggenda, ma rivedeva in me il suo spirito da palcoscenico, la sua leggerezza, la sua generosità, la sua spensieratezza. Credo fosse il suo modo carino di dirmi che avevo la testa tra le nuvole, e io ero l’ultima che potesse dargli torto.
“Non so proprio come farai…” mi diceva.
“Ha ragione: non studio, ma anche lei — che mi odia — deve ammettere che scrivo bene…”
“Cara Wanda, questo è vero, per l’orale, invece, speriamo che il tuo talento nell’arte dell’intrattenimento possa salvarti.”
Avrei voluto ringraziarlo per l’incoraggiamento, ma non importava, avrei dimostrato il mio valore, con o senza il suo aiuto. L’altra materia scritta era ragioneria e nessuno della mia classe eccelleva. Ricordo che la prof ci chiamava con un nome collettivo: Gente di Fiumara, come la canzone di Mino Reitano, ma in tono spregiativo. Fu lei a suggerirci di non prendere iniziative all’esame:
“Copiate dai ragazzi della sezione A, mi raccomando, loro sì che l’hanno capita la ragioneria…”
Ancora oggi, mi domando se la causa non fosse da attribuire al suo metodo d’insegnamento inefficace, ma lì per lì, non ci pensai. Avevo la sua benedizione per copiare? Mi bastava. Poi arrivò il momento delle materie orali. Avevo un debole per il diritto, mi piaceva un sacco, e per una breve parentesi della mia vita, avevo considerato l’ipotesi di diventare un brillante avvocato: come il tenente Kaffee di ‘Codice d’onore’. Se diritto fosse uscito all’orale, avrei avuto la vittoria in tasca. Andò male, uscì economia: numeri, non parole: non avevo scampo. La nuvola fantozziana che mi seguiva dalla nascita, anche questa volta, non si era dimenticata di me. Il giorno del tema fu quello più emozionante: era la mia prima volta. Il corridoio principale, quello vicino all’ingresso, era cambiato. Erano spariti i distributori automatici, le macchine da caffè, e l’area adibita alle chiacchiere, tra i cambi d’ora e l’intervallo, non era più la stessa. C’erano tre file di banchi, che a prima vista, sembravano interminabili. C’era silenzio, c’era paura. Cercai un posto. Uno qualunque. Dovevo solo scrivere: non ero preoccupata. Mi consegnarono il foglio e dettarono i titoli. Io presi il primo. Alla fine del tempo consegnai, poi uscii, sicura di ciò che avevo fatto. Ma poi, il brusio, il brusio disperato di chi chiedeva conferma, confrontandosi con altri disperati, aveva fatto disperare anche me. Mi ero fermata ad ascoltare un gruppo di ragazzi che aveva scelto il mio stesso titolo. Parlavano dello svolgimento: tutti avevano scritto cose che con le mie non c’entravano nulla. Ero andata fuori tema? Era la maledizione del prof d’italiano? Non avrei mai passato l’esame di maturità con un tema sbagliato. E con l’idea che così fosse, mi misi a studiare: davvero. Dovevo stare sui libri, almeno otto ore al giorno: anche se potevo copiare il compito di ragioneria, dovevo preparare gli orali. Inglese, tecnica bancaria ed economia: la più difficile. Anche Giaco aveva accessi limitati a casa mia. Non avevo tempo per amoreggiare. Il giorno del secondo scritto, me la facevo sotto dalla paura. Ma ero determinata: se volevo un sei, dovevo accaparrarmi il posto vicino a quello della mia migliore amica. La mia fu una corsa disperata, tutti i miei compagni volevano quello che io volevo, e non fu facile rimediare un posto. Ma ne trovai uno: davanti a Mimmo. Non era una cima, ma rispondeva ai requisiti suggeriti dalla mia prof e poi mi era simpatico: mi avrebbe passato il compito. Mai dimenticherò le parole scritte su quel foglio.Ero piccola, indifesa, ero una ‘Gente di Fiumara’, come potevano chiedermi di ‘Redigere un Bilancio’? Mi ci vede? Avrei voluto cominciare così, e scrivere a parole tutto quello che pensavo di un bilancio, partendo dalla più ovvia delle considerazioni: perché ogni uomo su questa terra ha un commercialista? Perché devo imparare se so per certo che da grande non farò la commercialista? Ma se avessi preso quattro, mi avrebbero bocciato: preferii copiare. Iniziai a mandare messaggi subliminali a Mimmo, arrivando addirittura a scoprirmi la coscia per attirare la sua attenzione. Aspettai che l’ispettore della commissione si allontanasse e quando lo vidi arrivare a metà corridoio, mi voltai e glielo chiesi. Il suo compito fu sul mio banco per tre minuti, ebbi giusto il tempo di dare una sbirciata, prendere spunto e inventarmi qualcosa. Poi, senza farmi vedere, rimisi il foglio sul banco di Mimmo. Non avevo capito niente, ma la cosa più strana era il numero considerevole di ‘uno’ che avevo visto in quel bilancio. Presi spunto e feci del mio meglio. Consegnai il compito quasi per ultima. Aspettai che Mimmo si alzasse, per fare il corridoio insieme a lui. Era come percorrere un patibolo: sapevo che ormai non c’era più niente da fare, ma volevo sapere perché c’erano così tanti ‘uno’. Feci la mia domanda sottovoce: lo vidi mettersi la mano in faccia, la fece scivolare sul petto e trattenne una risata. In quel momento, capii che stavo consegnandomi al boia che mi avrebbe tagliato la testa. Cosa avevo sbagliato? Mimmo mise il compito sulla scrivania del professore e mi aspettò per uscire dall’incubo. Una volta fuori, mi prese le spalle: voleva che lo guardassi negli occhi.
“Enri: non erano ‘uno’!”
“Cos’erano?” chiesi terrorizzata.
“Noi facciamo una stanghetta che simboleggia tre zeri, in un bilancio ne girano tanti: si risparmia tempo. La vostra prof non ve lo ha insegnato?”
No. Ciò che invece ho letteralmente rimosso sono le prove orali: non furono brillanti. Fatta eccezione per due piccoli dettagli che ricordo con piacere: Il mio voto nel tema: 8/9, e la conclusione di quella giornata calda e afosa. La commissione mi congedò, mi alzai e mi voltai verso il pubblico che stava seduto alle mie spalle: gli amici che avevano assistito alla mia interrogazione. Ero felice che fosse finita, non mi importava del risultato, volevo chiudere quella parantesi della mia vita. Feci per uscire, ma Giaco si alzò in piedi, mi applaudì e disse: “lei è la mia ragazza!”
Illustrazione: Valeria Terranova