opo essere rimasta al telefono con Michele per cinquantadue minuti, posso dire ufficialmente di aver trovato la mise per incontrare Olivia.
Abbiamo scartato il classico tailleur — anche se ho sottolineato che, per un appuntamento di lavoro, è sempre una proposta adeguata — e da veri temerari, siamo passati ad assemblare pezzi importanti del guardaroba, per farne qualcosa che stupisse. Qualcosa con un gusto sobrio, ma ricercato, liscio e allo stesso tempo effervescente. E comodo, sopratutto comodo: se devo mettermi in ginocchio per implorarla, devo farlo sentendomi a mio agio — per quanto sia possibile.
Composizione:
Jeans: l’ho scelto perché è confident.
Olivia non è stata solo il mio capo, è una donna che mi ha insegnato un pezzo di mondo che non conoscevo, le devo tanto. E un jeans pulito, senza strappi, versione Mom Fit, mi è sembrato perfetto.
Dopo un’attenta riflessione riguardo la scaramanzia, io e Michele siamo arrivati alla conclusione che nella vita ci vuole coraggio: se trovi due pezzi che insieme spaccano e tutti e due sono di colore viola, vale la pena rischiare.
Ma di fronte a quel concentrato di azzardo, che sta appeso all’anta dell’armadio, deglutisco.
Va bene sfidare la sorte, ma forse abbiamo esagerato: un cappotto viola di Jean Paul Gaultier avvolge una camicia a fantasia della stessa tonalità di Yves Saint Laurent. Il verde menta che completa la stampa mi fa sentire meglio, ma sono le Manolo bicolore comprate a New York a convincermi che abbiamo fatto la scelta giusta. Manca solo la borsa.
Tote Dior Oblique: l’incrocio tra una valigetta e una borsa da spiaggia sembra essere diventato il pezzo del momento.
Mi allontano di un paio di passi per osservare la mia mise geniale nel suo insieme: mi compiaccio e spengo la luce, uscendo dallo Studio.
Sofia è sul divano con Olivia, che si è già addormentata sul suo pancino, le restano dieci minuti di tv prima di andare a dormire e io mi sdraio un po’ con lei.
“Mamma come hai trovato Olivia?”
Di quale sta parlando?
“La mia o la tua?”
“La mia.” dice mettendosi a ridere.
Non posso dirle che ho dovuto rilanciare per distruggere il gatto di Andrea.
“Volevo farti un regalo, qualcosa di grande, qualcosa di raro…”
Così sembra la canzone di Tiziano Ferro.
“Volevo renderti felice…” concludo commossa.
“Mamma: dove lo hai comprato?”
È evidente che non ho recepito il senso pratico della sua domanda.
“Da una signora di Milano che si chiama Mina.”
“Che bel nome!” esclama.
Posso ancora farcela.
“L’abbiamo chiamata Olivia solo per mezza giornata: sei ancora in tempo.”
dico nel tono più persuasivo che conosco.
“Ormai ho deciso.”
Abbandono ogni speranza e sulla sigla di Jessie, che per Sofia è l’equivalente della mezzanotte per Cenerentola, il mio telefono squilla.
Leggo ‘Paolo’ sul display, cerco di togliere la suoneria, ma i miei modi involontariamente agitati attirano l’attenzione di mia figlia.
“Chi è mamma?”
Non mi sembra il caso di dirle la verità.
“La nonna, amore, scusa un momento.” dico alzandomi dal divano.
Ma mentre mi aggiro per casa, cercando di appartarmi per riuscire a parlare, la chiamata si interrompe.
E adesso? Penserà che non ho voluto rispondere, forse non richiamerà mai più… ma più tengo il telefono tra le mani, confidando nella sua perseveranza, più mi rendo conto che è la mia pazienza a scarseggiare: lo chiamo io.
Sono in piedi, le spalle si scollano dalla parete a cui mi sono appoggiata per riflettere, mi sposto in avanti e controllo che Sofia sia ancora sul divano: la vedo.
Potrei ricordarle che è giunta l’ora della nanna, ma poi mi chiederebbe la favola che le racconto sempre prima di dormire, e questo penalizzerebbe la tempestività che in questo momento è necessaria.
Continuo a spiare Sofia da dietro il muro, poi, in punta di piedi, tento di raggiungere una stanza in cui non possa sentirmi.
Mi sento come Pablo Escobar in casa sua, mentre gli agenti della DEA cercano di stanarlo, e anche se banale, l’unico luogo sicuro mi sembra il bagno: entro e chiudo a chiave.
Mi siedo sul bordo della vasca, faccio un bel respiro e seleziono la sua chiamata tra quelle appena ricevute: il telefono suona, lui risponde.
“Ciao.”
Quattro lettere, una parola e già mi sento svenire: che bella voce.
“Pronto?”
Le mie considerazioni sul suo timbro vocale devono essersi dilungate più del dovuto. Eva: ora concentrati.
“Sì sono qui, scusa se prima non ho risposto, ero… stavo finendo di lavare i piatti.”
Siamo nel 2018, tutti hanno una lavastoviglie. Che cosa sto dicendo?
“Come stai?” chiedo un attimo dopo.
“Io sto bene e tu come stai?”
“Bene, grazie. Com’è andato il rientro?”
“Vorrei tornare a Cortina…”
Mi sembra stia sorridendo mentre lo dice.
Difficile stabilire se lo stia facendo per il nostro incontro o per la vacanza in generale, ma sono stata io a richiamare e non voglio farmi strane illusioni
che potrebbero indurmi a dire cose di cui mi pentirei.
“La stagione è appena cominciata, l’inverno è lunghissimo, avrai tantissime occasioni per tornarci e…”
“Ho voglia di vederti.”
Al diavolo le mie premure.
“Anche io…” mormoro.
“Mamma, è ora di andare a letto! Ti sei dimenticata?”
Pare che le grida di Sofia abbiano deciso di buttare giù la porta.
“Ehm… Arrivo amore, arrivo subito…” dico frettolosa, allontanando il cellulare.
“Okay, ti aspetto in camera.”
Sento i suoi passi muoversi nella direzione giusta, un senso di sollievo e il bisogno disperato di riappropriarmi della conversazione che ho appena abbandonato.
“Mi senti?” chiedo con un filo di voce.
“Forte e chiaro: hai detto ‘amore’ e ‘subito’, giusto?” risponde in tono divertito. Beccata: a stento trattengo una risata.
“Sofia mi sta richiamando all’ordine, è l’ora della nanna.” bisbiglio.
“Avevo capito, anche se speravo che la risposta fosse per me…” sussurra.
Nei quattro secondi successivi, regna il silenzio, e la sola cosa a cui penso è il bacio che mi ha dato, prima di salutarmi. Non mi viene nessuna battuta audace, nessun commento brillante, niente di niente.
A togliermi dall’imbarazzo è una sua domanda:
“Domani sarò a Torino per un incontro di lavoro, possiamo vederci per cena?”
Mercoledì avrò anch’io un incontro di lavoro — un importante incontro di lavoro — mi servono otto ore di sonno, la mente sgombra, il viso riposato.
“Certo, volentieri.”
Lo dico in modo così composto e rilassato, da meritare una Oscar come migliore attrice protagonista. Dove ho rimediato tanto self control tutto insieme?
“Hai un ristorante preferito?”
“Tutti hanno un ristorante preferito…”
Mi sento arrossire mentre rispondo.
“Allora lo abbiamo già scelto, prenoti tu?”
“Assolutamente sì.”
“Alle nove?”
“Alle nove.”
“Mandami un messaggio con l’indirizzo: passo a prenderti.”
“Con piacere.”
Lascio scemare la ‘R’, lo dico un po’ alla francese, per salutarlo flirtando.
Perché all’improvviso, tutto ciò che mi circonda sembra bellissimo? Anche il rivestimento di piastrelle che ho di fronte.
Mi alzo, mi guardo allo specchio e penso che anch’io non sono niente male.
“Mamma…”
Qualcuno ha bisogno di me.
Faccio un sorriso ed esco dal bagno: Sofia e Olivia mi aspettano.
Mi sono svegliata presto e mi sono fatta una maschera al viso: liftante, energizzante, rimpolpante. Poi, ho fatto colazione sfogliando il giornale sull’iPad.
E mentre mi vestivo, ho pensato a lui.
Quando un altro uomo entra a far parte della tua vita — specie se questa, ultimamente, è stata alquanto deludente — si innesca un meccanismo che coinvolge ogni molecola del tuo essere,
spronandoti a essere favolosa in ogni istante della giornata.
È come avere i suoi occhi addosso, continuamente, e il tuo pensiero fisso diventa uno soltanto: non voglio che si scollino da me.
Per una cosa così impegnativa, occorre tirar fuori la parte tua parte migliore:
quella che si vuole bene. E a prescindere tutto, credo che da oggi, mi sentirò sempre favolosa. Parola di scout.
E lì, mentre faccio la mia promessa sparecchiando, mi viene da chiedermi: da quanto tempo non mi sentivo così?
Fisso il caffè che scivola giù nel lavandino, come se stesse portando la risposta via con sé. Ma la verità fa male: sono passati due anni da allora e avevo dimenticato quella strana forma di emozioni, fatta di momenti brevi e intensi, che continuo a immaginare.
E se questo è il momento di confessare, io sono pronta: la fine del mio matrimonio non è stato un fulmine al ciel sereno.
Sentivo da tempo che le cose tra noi non erano più le stesse. Da mesi avevo il sospetto che mi tradisse. Ma il tuo inconscio dimentica, se il tuo io non è pronto ad accettare. E così è stato.
Ho preferito tacermi una verità che già conoscevo. Mancavano solo le prove.
E quando sono arrivate, una parte di me voleva che non succedesse: avevo paura di non riuscire a gestire la situazione, o peggio ancora, di non averne le capacità.
Ma il tempo delle mezze verità è finito,
non è stato il tradimento a sciogliere l’incantesimo, ma la presa di coscienza del mio amore finito.
E alla fine, dopo queste vivaci considerazioni, ho deciso di mettermi qualcosa di allegro: ne avevo bisogno.
Un cappotto rosa di Valentino, jeans confident — perché dopo aver accompagnato Sofia a scuola, passerò da mia suocera a chiederle un favore — stivaletto in pelle Chanel, maglia colorata Missoni, borsa Cademartori.
In una parola?
Favolosa, come da copione.
Sofia sale in macchina e partiamo.
Dopo una decina di minuti, arriviamo davanti alla scuola. Scendo per recuperare lo zaino che ha viaggiato nel baule, poi aiuto Sofia a scendere.
Mi avvicino all’ingresso tenendola per mano: all’orizzonte non vedo nessuna madre pericolosa, le metto lo zainetto sulle spalle e la saluto, augurandole una buona giornata.
E mentre la guardo allontanarsi, realizzo di averne bisogno anch’io.
Risalgo in auto e vado da Clara.
La sua casa, vista da fuori, mi ricorda un’ambasciata: il luogo in cui non è concesso ai conflitti di entrare, il luogo in cui rifugiarsi quando si fugge da un nemico, il luogo diplomatico in cui chiedere aiuto.
Suono il campanello, lei mi sta aspettando: la porta si apre.
Entro in casa e sento profumo di dolci.
Torta, biscotti?
“Ho fatto la cheescake, ne vuoi un po’?”
Mi chiede mentre raggiunge la cucina.
Io la seguo, pensando che non mangerò più cheescake finché campo, ma mi limito a rispondere con un semplice: “No, grazie.”
“Posso offrirti un caffè?”
“Quello, sempre volentieri.”
Clara continua a seguire la vecchia scuola: preferisce prepararlo con la moka, e anche se i tempi si allungano, mi fa sempre piacere chiacchierare con lei.
“Come va?” mi chiede premurosa.
“Meglio. Mi sento meglio. Credo di aver accettato, la situazione: lui ora è innamorato di un’altra, avrà una nuova vita e io cercherò di fare lo stesso…”
Clara continua a sistemare il piano della cucina, che ancora porta i segni della preparazione della torta, la osservo, ma sembra un diversivo, più che una reale intenzione di riportare la cucina all’ordine a cui è abituata: sta per dirmi qualcosa?
“Non credo che con Andrea durerà…”
Vorrei non aver sentito ciò che ha detto.
“Perché dici così?” le chiedo.
Ma il sottile senso di preoccupazione che avvolge la mia domanda rischia di essere male interpretato: non mi importa un bel niente se tra quei due durerà, sono io che non sono più interessata a suo figlio e non capisco il perché di questa inutile confidenza.
“Sensazione…” dice facendo spallucce.
Abbasso lo sguardo, se non fosse che lo ha messo al mondo, potrei considerare le sue intuizioni poco attendibili e invece, qualcosa mi dice che potrebbe avere ragione e non voglio che la sua previsione possa influenzare le mie scelte.
Decido di lasciare cadere il discorso e di andare dritta al sodo, chiedendole il favore che mi ha portato qui.
“Ho un appuntamento domattina…”
“Oh! E di che genere?” mi chiede versandomi il caffè nella tazzina.
Non immaginavo che me lo chiedesse, ma con lei ho sempre avuto un ottimo rapporto: credo di poterglielo dire.
“È un appuntamento di lavoro.”
Se fosse un insetto avrebbe letteralmente rizzato le antenne. La sua espressione meravigliata, ma al tempo stesso compiaciuta mi sprona a continuare.
“Ho deciso di riprendermi il lavoro che ho abbandonato dopo il matrimonio…”
“Mi sembra una buona idea…”
Continua a sorprendermi: è come se già lo immaginasse.
“Non so ancora se avrò il posto, è una faccenda complicata, dovrò gestire il lavoro a distanza, organizzare il mio tempo in modo diverso, ma anche Sofia sembra essere d’accordo… e a proposito di Sofia: può restare da te fino a domani sera?”
“No cara.”
Come ‘no cara’? È sempre stata ben disposta ad aiutarmi, specie adesso, nonostante la mia rottura con suo figlio.
“Sto partendo per Parigi con le mie amiche del vintage: andiamo a caccia.” dice entusiasta.
“E io?”
“Senti tesoro, non fare quello sguardo con me: non salto Parigi da dieci anni, neanche mio marito è mai riuscito a fermarmi e non ci riuscirai nemmeno tu.”
Che forza questa donna. Sta difendendo i suoi spazi, come io sto difendendo i miei: non posso nemmeno arrabbiarmi.
“Okay, okay, messaggio ricevuto: ‘giù le mani da Parigi’” dico virgolettando la frase con le dita. “Allora divertiti.”
Mi fingo felice, ma muoio al pensiero di dovermela cavare senza il suo aiuto.
Sono costretta a chiederlo a Davide e non ho voglia di vederlo, non ho voglia di sentirlo, eppure non ho scelta.
Infilo il cappotto, le do un bacio e mi avvio verso l’uscita.
“Eva aspetta…”
Mi sta dando una speranza?
“Sì…” dico voltandomi.
“Parto giovedì per Parigi, se vuoi posso tenere io Sofia, ma forse dovrebbe essere Davide a occuparsene: è suo papà.”
Clara china la testa di lato, sorride dolcemente e io mi sento morire di fronte a quella osservazione che posso solo definire giusta. E di nuovo, mi trovo di fronte alla mia coerenza, che a parole funziona benissimo, ma con i fatti ha decisamente più difficoltà.
“Lo so…” dico con una punta di commiserazione.
“E poi vestita così sei da sballo, io andrei da lui, adesso.”
“Ma si sta allenando…”
E non so più nemmeno io se lo sto dicendo per giustificarlo, o per evitare di vederlo.
“E allora? Se rivuoi il tuo lavoro, dovrà darti una mano… e non solo stasera.”
Il suo discorso non fa una piega.
E mentre mi domando se alla sua età, anche io sarò così decisa e lungimirante, la saluto ed esco di casa.
Raggiungo l’auto che ho parcheggiato in strada, ripensando a quella chiacchierata curiosa. E non posso fare a meno di chiedermi se abbia detto certe cose solo per il mio bene o se stia cercando di farmi riavvicinare a Davide.
Poi però, mi soffermo sulle ultime parole che ha pronunciato, su quelle precedenti e anche su quelle che precedono le precedenti: in effetti, oggi, sono proprio uno sballo. Forse dovrei ascoltarla e passare allo stadio: non importa se sta lavorando, anche io ho bisogno di un lavoro e mi serve il suo aiuto.
Salgo in macchina e metto in moto.
VENTISETTESIMO EPISODIO
Illustrazione: Valeria Terranova