ra l’estate in cui dal traghetto avevamo visto la tartaruga nuotare in mezzo al mare, l’estate in cui Giaco aveva chiaramente manifestato che, negli anni, la mia vicinanza lo avevo cambiato fino a renderlo intrattabile, era l’estate del 2015: l’estate in cui passammo le vacanze in Sardegna.
Ivana, la nostra travel agent, quella che quando mi chiama al telefono dice: ‘ciao carina, ciao blogger’, aveva trovato un albergo poco distante dal centro di Porto Cervo in cui accettavano i cani.
La discriminazione tra cani di taglia grande e piccole non mi è mai stata chiara: per quale ragione le direzioni degli alberghi credono che i cani più piccini siano più innocui degli altri? E se per Boy, che è un cane educatissimo, anche il Mandarin Oriental di New York potrebbe fare un’eccezione, in Sardegna mi accontentai della gentilezza offerta dall’unica struttura disposta ad accettarlo, ringraziai e prenotammo.
Il mio autismo non è mai stato soltanto alimentare, seppure dopo la nascita delle bimbe mi fossi imposta di visitare scenari diversi dalla Riviera Adriatica, non mi era facile abituarmi ai luoghi che non conoscevo. Se Gesù il terzo giorno era resuscitato, io, il terzo giorno a Porto Cervo, mi sarei buttata da uno scoglio con un masso legato al collo: ero disperata.
Non mi fregava niente del mare cristallino, dei tramonti mozzafiato — anche il pane carasau non era stato capace di restituirmi il sorriso. Mi mancava Chiozza, il mio gatto, le mie abitudini, e Carola, che aveva sempre avuto un temperamento allegro e un discreto spirito di adattamento, era diventata intrattabile e capricciosa. Un giorno, uscendo dalla camera d’albergo, mi ero pure imbattuta in una serpe fuori dalla mia stanza. Mi sembrava di vivere dentro un film di Blatty, poi pian piano, mi ambientai.
Credo che a farmi accettare quel nuovo contesto fosse il cambiamento repentino degli atteggiamenti di Giaco, che a tratti mi divertiva e a tratti mi preoccupava.
Ma di fatto, quella misteriosa mutazione,
avrebbe dato vita a un paio di episodi che sarebbero rimasti indelebili nella nostra memoria.
Il giorno seguente l’arrivo, il direttore dell’albergo ci informa che la sera stessa, ci sarà una cena a bordo piscina.
Dopo un breve consulto familiare, decidiamo di prenotare un tavolo per quattro, e Giaco, sempre attento alle mie esigenze, si assicura che sia previsto un menù vegetariano. In cucina dicono che non c’è problema.
Il problema sopraggiunge quando, a fine cena, i camerieri iniziano a servire il dolce e io ho avuto solo un piattino di verdure grigliate. Giaco chiama il maître per fargli presente che sua moglie ha ricevuto solo un antipasto, lui gli risponde: “non c’è problema, faccio preparare delle verdure grigliate.”
Giaco si arrabbia, lo rimprovera per la poca professionalità. Ai miei occhi si sente un eroe. È come se stesse tentando di dirmi: hai visto amore che per te mi sono inc*****o? E seppure lo apprezzi, la faccia desolata del maître mi fa capire che non c’è trippa per gatti: decido di sfamarmi con il cestino di pane carasau — prima che lo portino via.
La sera successiva, in un altro ristorante della struttura con vista sul mare, Giaco ordina un dolce al cucchiaio. Il cameriere glielo serve ghiacciato. Lui prova a spezzarlo con la posata di cui dispone, ma la pallina di semifreddo esce fuori dal piatto e gli macchia la camicia. Giaco chiama il cameriere per farglielo presente.
“Vuole un coltello?” chiede lui.
Gli occhi di mio marito si iniettano di sangue, davanti allo sguardo pietrificato delle bambine che lo fissano con un’espressione traducibile in: papi torna in te. Giaco se ne frega e chiede irritato al cameriere se è una cosa normale. Il cameriere ci porta il conto.
La sera successiva, scontenti del servizio della struttura, decidiamo di uscire, ma visto che siamo sprovvisti di un’auto, chiamiamo un taxi. A Porto Cervo i taxi sono come i panda, a rischio di estinzione: non se ne trovano. E quando ne trovi uno, capisci perché: sono carissimi.
Il signore ci accompagna in piazzetta, la corsa è costata così tanto che avrei voglia di portarmi via il bracciolo, ma Giaco non si squassa, estrae una banconota dal portafoglio e la porge al tassista.
Scendiamo dall’auto e ci dirigiamo verso il ristorante giapponese che conosco. È una succursale di un famoso fusion di Milano. Lì non servono i semifreddi ghiacciati e i ragazzi che ci lavorano sono gentilissimi, ci fanno sentire a casa. Anche le bimbe si divertono, Carola non fa i capricci e Toe’s diventa il nostro ristorante fisso, ci andiamo tutte le sere. D’obbligo l’ultima, in cui tutti e quattro ci ritroviamo seduti a tavola a sospirare, ripensando ai bei momenti di quella vacanza ormai finita.
Al termine della serata, davanti a un caffè, uno dei ragazzi viene a dirci che lo chef vuole parlare con noi, siamo lusingati.
“Bimbe, mi raccomando: siate gentili, dite che avete sempre mangiato benissimo e siate educate, okay?”
“Okay.”
Lo chef Obeka è lì davanti a noi, ci alziamo in piedi, lui ci sorride. Si avvicina a Giaco che, felice di fare la sua conoscenza, gli sorride a sua volta porgendogli la mano.
“Grazie per essere venuti…”
Siamo commossi.
“Però vi chiedo di lasciare il tavolo: ho quattro persone che lo stanno aspettando. Buona serata.”
E dire che avevo appena raccomandato alle mie figlie di essere gentili ed educate, ma è evidente che qui è qualcun altro che deve imparare l’educazione.
Lo sgomento di Giaco è palpabile e pure il mio. Le bimbe invece non hanno capito cos’abbia detto lo chef e forse stasera tocca a me chiudere la serata: “lo chef dice che è stato molto, molto, molto felice di conoscerci… In giapponese e adesso andiamo.”
La vacanza era davvero finita: io Giaco promettemmo sul nostro onore che per un mese, nessuno di noi avrebbe più mangiato fusion.
Illustrazione: Valeria Terranova