l mio romanzo era stato spedito alle case editrici e loro dicevano no. La perseveranza mi imponeva di non arrendermi, ma a spronarmi di più, erano le lettere di rifiuto che ricevevo via posta elettronica. Uno screenshot, un sospiro, una lacrima, un lungo pianto disperato e la solita domanda: #pecccchè?
Fatta eccezione di un paio, di cui ricordo solo la durezza e la freddezza di un iceberg, tutte le altre erano caldissime. Si aprivano elencando gli aspetti positivi del mio modo di scrivere: la grande ironia, il modo brillante di argomentare, la comicità degli eventi, ma tutte si chiudevano con un però: è un genere difficile da piazzare, abbiamo già qualcosa di simile. C’era stato addirittura chi mi aveva rifiutato per lo stile simile a quello di Sophie Kinsella. E se lo avevo detto un grande editore: potevo crederci. Ho continuato a scrivere, sperando che insistere mi desse ragione, ma nella vita, lo sanno tutti: è la fortuna che ti fa svoltare. L’estate scorsa, Dio decise di mandarmi un segno, anzi, qualcosa di meglio: un importante editore nello stesso albergo in cui alloggiavo. A informarmi della ‘Sua venuta’ è il direttore con cui sono in confidenza. Mi raggiunge nella hall, bisbiglia, fatico a decifrare, ma le sue sopracciglia — una inarcata, l’altra abbassata — lasciano intendere che l’informazione sia strettamente riservata. Mi fa cenno di seguirlo e ci incamminiamo lungo il corridoio che conduce nel giardino che circonda la piscina, e dopo essersi accertato che nessuno ci stia ascoltando, a bassa voce dice: “La signora Io ho pubblicato i più grandi best-seller è arrivata stamattina.”
Mi metto una mano sulla bocca e mi stampo sul viso un’espressione traducibile in: ‘Miiiiii, non ci posso credere’. Lui si allontana e io rimango sola con il mio stupore. La voglia di stanarla per farle leggere qualcosa di mio è incontrollabile. Mi aggiro per l’albergo fingendo di aver perso le bimbe — che nel frattempo sono state messe al corrente e stanno facendo da palo nell’ala sud e nell’ala ovest — ma di lei nessuna traccia.
“Mamma: io non ho capito com’è fatta…” dice Carola, quasi a volersi giustificare per il mancato avvistamento.
“Ce l’ha descritta quattro volte, non hai ancora capito?” interviene Emma per sottolineare la sua mancanza di attenzione. “È un po’ anziana, ha il bastone…”
“Ho capito: l’ho vista stamattina, era in piscina.”
Corro, nella speranza di trovarla ancora seduta su quella sedia, in cui Carola ha aggiunto di averla vista leggere, ma non c’è. Decido di interrompere le ricerche per non sprecare inutili energie. Dovrò prendere informazioni sulle sue abitudini, sui suoi orari e mentre immagino un incontro che possa sembrare il più occasionale possibile, ricevo una chiamata dal mio agente letterario. Un altro rifiuto entusiastico che fatico a comprendere e il desiderio di confessarle che il nostro asso nella manica sta facendo le vacanze dove le sto facendo io.
“Potrei avvicinarla, presentarmi e farle leggere qualcosa che ho scritto, è un’opportunità.” le dico eccitata.
“Assolutamente no.”
Che cosa? E quando mi ricapita un’occasione come questa?
“Ma siamo ospiti dello stesso albergo, sarebbe una chiacchierata informale…”
“Potresti infastidirla e visto che la sua casa editrice sta probabilmente leggendo il tuo romanzo ora, non mi sembra il caso di rischiare.”
Lapidaria, irremovibile, severa.
Il dono che mi è stato mandato dal cielo, pare non possa essere accettato per questioni di etichetta.
L’agente letterario deve aver male interpretato il mio entusiasmo o forse, teme che sia disposta a rapire la signora e a chiedere un riscatto alla famiglia, pur di riuscire a pubblicare il mio libro. E anche se il pensiero mi ha sfiorato, preferisco rispettare la sua decisione, confidando nel destino: se Dio l’ha mandata fino a qui, riuscirò a incontrarla. Passano due giorni e ancora niente. Ad aggravare la situazione ci si mette pure la sua partenza, prevista per l’indomani. Ho avuto la soffiata dal direttore, ma il tempo che mi resta non è molto: la mia occasione se ne sta andando. Anche le bimbe sono dispiaciute: “Mamma, dai, non è ancora finita.” mi consola Emma.
Difficile capire se si stia riferendo all’incontro che potrebbe cambiarmi la vita o se, piuttosto, alla mia carriera: ma è inutile sottolineare che i fatti sono strettamente collegati. Finiamo di cenare e visto l’umore generale, preferiamo rinunciare alla passeggiata in centro e rimanere in albergo a guardare la tv, ma prima, ci servono le chiavi della stanza che abbiamo lasciato in reception. Le porte che precedono l’ingresso della grande sala luminosa sono a spinta e sono pesantissime, uso tutte e due le braccia per riuscire ad aprirne una, le bimbe mi seguono e raggiungono il banco. Emma chiede le chiavi, Carola prende una manciata di caramelle e se le mette in tasca. Il mio sguardo furente le fa capire di avere esagerato. Ne ripone la metà dentro l’ampolla da cui le ha pescate e si siede sul divano, guardandomi in modo rassicurante, come a dire: ‘adesso, faccio la brava’. Emma si siede accanto a lei e io cerco di iniziare una conversazione con la receptionist. Parlo del tempo, del caldo, del sole e del mare, mi trattengo il più possibile sperando di imbattermi nella signora, ma stasera, anche le bimbe sono collaborative. L’unica volta in cui vorrei ripetere all’infinito ‘andiamo’, alla prima chiamata, si alzano e si mettono in marcia senza protestare. A questo punto, credo che Dio mi stia mandando un premio di consolazione: una melodia. La sento solo io, ma è la sola che vorrei accompagnasse questo momento tragico: la colonna sonora di Love Story di Francis Lai. Afferro le chiavi che mi aspettano sul banco da una buona mezz’ora e mentre faccio per andarmene, vedo la signora Io ho pubblicato i più grandi best-seller che sta per entrare. La provvidenza vuole che abbia qualche difficoltà con il bastone, d’istinto, mi precipito ad aiutarla. Tiro la porta verso di me, faccio un sorriso, lei mi ringrazia. Poi, si ferma a guardarmi e dice:
“Che bello questo vestito…”
Vorrei specificare che non è un vestito: è una maxi maglia ed è uno dei miei pezzi preferiti di Missoni e sarei disposta a separarmene anche ora, se prendesse in considerazione l’idea di leggere il mio romanzo, ma le parole del mio agente mi frenano e mi limito a rispondere con un timido grazie.
“Mamma, non è ancora detta l’ultima parola.” esordisce Carola, la mattina della partenza della signora.
Forse ha ragione, decido di mettere lo stesso vestito della sera precedente: è un elemento visivo che potrebbe ricordarle chi sono. E anche se Anna dello Russo sostiene che indossare la stessa combinazione due volte di fila non è ammissibile, credo che se si fosse trovata nella mia stessa situazione, la penserebbe in modo diverso. Raggiungo la terrazza colazioni accompagnata dalle bimbe e seduta al tavolo che sta vicino all’ultimo rimasto libero, c’è proprio la signora. Sta davanti a una tazza di tè, con lei c’è il sosia di Arnel, il domestico filippino di Zelig.
“Joselito, sei in ritardo…” gli dice con rimprovero.
“C’era traffico signora, il motore ha svampato signora… carico i bagagli e la riporto a casa.”
Si allontana lasciandola sola, noi prendiamo posto al nostro tavolo e la salutiamo. Lei ricambia, ma sembra pensierosa. Fare la prima mossa non è tra le opzioni disponibili, anche questa volta, dovrò aspettare che sia lei a fare qualcosa, a dire qualcosa e alla fine si pronuncia: “Dovrei andare in bagno.”
Forse è una considerazione fatta ad alta voce, ma se fossi io ad accompagnarla, potrei sfruttare il tragitto per parlarle di me. Guardo il suo bastone appoggiato alla sedia: e se non avesse bisogno del mio aiuto? E se la mia offerta la offendesse? Meglio aspettare. Afferro la tazza di caffè, bevo nervosamente e la vedo alzarsi in modo autonomo: impugna il bastone per mantenersi salda, poi, inciampa sul gradino e cade proprio lì: vicino alla mia sedia. È ancora viva. Una parte di me è sollevata, l’altra vede scemare per sempre la possibilità di praticarle la respirazione bocca a bocca, di salvarle la vita e di riuscire a barattare un salvataggio eroico con la mia pubblicazione. Mi chino verso di lei e la aiuto a rialzarsi, chiedendole se va tutto bene, ma il gradino l’ha fatta arrabbiare: lo maledice e anch’io lo insulto, cercando di alleggerire il suo imbarazzo. La accompagno alla toilette, ma il momento che avevo immaginato come l’opportunità di dirle chi sono, dopo la caduta è diventato il più inopportuno. La vedo partire, vorrei salutarla sventolando un fazzoletto bianco, come si faceva una volta, ma mi guardo da fuori e su quel piazzale di ciottoli bianchi con una lacrima sul viso e le bimbe che mi abbracciano, mi sembra di vivere la scena di un film: La ricerca della felicità. Quella in cui il bambino racconta al papà l’aneddoto del salvataggio. Un uomo sta affogando in mare, passa una barca e chiede all’uomo:
“Ti serve aiuto?”
E lui: “No, no, Dio mi salverà.”
Passa un’altra barca e chiede all’uomo:
“Ti serve aiuto?”
E lui: “No, no, Dio mi salverà.”
Poi l’uomo annega e va in Paradiso, l’uomo chiede quindi a Dio:
“Perché non mi hai salvato?”
E Dio: “Ma se ho mandato due barche a salvarti, stupido!”
Quello stupido sono io. Da allora non ho più visto la signora e forse, mai più la rivedrò. La mia occasione se n’è andata via con lei, ma se ripenso all’episodio nell’insieme, non posso fare a meno di chiedermi: chi lo avrebbe detto che un giorno, uno dei pilastri dell’editoria italiana sarebbe caduto ai miei piedi?
Illustrazione: Valeria Terranova