a quando mi sono trasferita a Modena, le mie amiche sono impazzite di gioia.
Siamo tutte quante giunte alla conclusione che, come in una proporzione matematica, nel nostro immaginario Modena sta a New York, come Sassuolo sta al New Jersey. E se qualche malalingua stesse insinuando che stiamo scimiottando Sex and The city, mi dispiace smentirla, ma il concetto è molto più semplice: a Modena, come a New York, ci sono i taxi ventiquattro ore su ventiquattro. Vuoi mettere la comodità di andare in centro in taxi e non perdere tempo a cercare parcheggio?
Significa uscire rigorosamente con i tacchi, senza paura di romperne uno con i Sanpietrini o di percorrere chilometri a piedi per raggiungere la tappa stabilita.
Quindi, potendo usufruire di questa comodità, ogni venerdì sera o quasi, appendo la vestaglia al chiodo, mi infilo un tacco — anche con una distorsione alla caviglia — mi metto qualcosa di carino per fargli prendere aria, ed esco con le mie amiche. Ne ho bisogno.
Io e le ragazze — che di solito siamo in quattro, ma non sempre riusciamo a essere al completo — siamo molto abitudinarie. In realtà sono io che ho l’autismo alimentare e mangio sempre le stesse cose, nello stesso posto, quindi per assecondare il volere di una pazza che, tra l’altro, è anche la più vecchia del gruppo, le ragazze mi seguono.
Nell’ultimo periodo, a Modena, c’è un posto particolarmente in voga: Oreste.
Era un ristorante storico aperto alla fine degli anni Cinquanta, da sempre frequentato dal jet society della città.
Dopo voci insistenti su una possibile chiusura, ha cambiato gestione e riaperto i battenti il primo novembre dell’anno scorso, mantenendo il suo vecchio stile: gli arredi, il menù, la cucina tradizionale, ma in chiave moderna. Ed entrare non è facile. Oreste è sempre al completo, riuscire a prenotare è quasi impossibile.
Però, dopo esserci state un paio di volte, abbiamo fatto amicizia con un infiltrato speciale che lavora nella sala ristorante.
E seppure non possa rivelarne il nome — per salvaguardare la sua posizione da agente segreto — la cellula esiste e questa volta ci fa entrare dalla porta di servizio, riservandoci un tavolo in saletta. Nessuna di noi l’ha mai vista, ma usciamo per il piacere della compagnia — e dei cocktail — dove ci mettono, stiamo.
Venerdì sera arriva in fretta.
Le mie amiche parcheggiano la macchina da me, io chiamo il taxi. In macchina c’è un miscuglio di profumi e parole che stordirebbe chiunque, tanto che, dopo un paio di minuti, il tassista deve aprire il finestrino per non morire asfissiato e finire la sua corsa. Ma arriviamo a destinazione sane e salve.
Oreste è in Piazza Roma, in pieno centro e la vista è mozzafiato. Mi domando come sarà l’esterno del ristorante in tarda primavera. Magari si potrà mangiare all’aperto. Immagino i tavoli apparecchiati, le persone che si divertono, l’abbigliamento adeguato alla stagione che colorerà questa fetta di piazza, e anche se fuori fa freddo, per un momento, riesco pure a immaginare la brezza estiva, l’abbronzatura dorata e il profumo di fico che metto di solito in quel periodo.
A ricordarmi, però, che è solo gennaio, è il cappotto lungo fino ai piedi che indosso. Purtroppo dovrò aspettare ancora un po’ prima di potermi sedere qui fuori con le infradito. Con un sospiro, raggiungo le ragazze che stanno entrando in fila indiana, precedute da altre quattro persone.
Sono certa che il nostro infiltrato speciale ci ha concesso un upgrade, forse ci ha addirittura assegnato il ‘nostro’ tavolo, quello circolare al centro della sala: potrebbe esserci stata una cancellazione all’ultimo minuto. Faccio un passo avanti per cercare il tavolo preferito e dalla vetrata, noto che è libero e apparecchiato per quattro: sembra aspettare proprio noi.
E invece aspettava quei quattro che ci precedevano, ma come ho detto, basta stare insieme.
Una ragazza molto carina con un vestito in velluto blu ci accoglie nell’atrio per chiederci il nome della prenotazione e dopo averlo individuato, ci accompagna ai nostri posti: nella saletta misteriosa al piano di sopra.
Saliamo le scale accompagnate dal suono del pianoforte. Che bella atmosfera, fa un po’ Busà in Capannina, e quando arriviamo al nostro tavolo — rettangolare sul lato destro — il nostro venerdì sera inizia.
Quello che può sembrare un semplice momento di svago tra donne, più che altro è un incontro di psicoterapia femminile di gruppo: perché gli uomini certe cose non possono capirle. È un momento tutto nostro per raccontare le nostre esperienze e confrontarci. Ci aiutiamo a vicenda a mettere ordine in quel subbuglio mentale di cui spesso siamo in balia. E poi raccogliere pareri femminili fa sempre comodo: ci fa sentire meno sole.
Quando si sta bene, il tempo vola: non si dice così? Ci siamo appena sedute ed è già ora di chiamare un taxi per tornare a casa.
Sedute sui sedili di quell’auto, guardo le mie splendide amiche e vedo un sorriso sui loro volti. E lì, mentre ci immagino con quarant’anni di più, su una spiaggia delle Maldive in cui ci avrà spedito un tour operator per anziani — visto che le isole probabilmente affonderanno — so che ricorderemo con gioia quei momenti di tarda gioventù. E magari Tilla — l’unica di noi che a ottant’anni potrà ancora permettersi un bikini — inizierà a raccontare, sorseggiando un Ray Collins, qualche episodio storico delle nostre uscite e forse, chissà, anche una delle nostre serate da Oreste.
Illustrazione: Valeria Terranova