dopo una notte di sesso tantrico sfrenato, carezze e parole dolci sussurrate all’orecchio, i miei occhi si aprono e guardano il soffitto. Quasi fosse l’intonaco a darmi la conferma che non è stato solo un sogno. È tutto vero.
Allungo lentamente la mano verso Paolo — all’altezza delle sue mutande, per essere esatti — e le dita sfiorano l’elastico che avvolge un basso ventre scolpito e un fondoschiena duro come il marmo. Arrossisco, ritraggo la mano: credo sia la pudicizia del mattino.
Lui dorme ancora, mi volto, controllando i movimenti per non svegliarlo, e lo guardo come farebbe una teenager: mi eccita sapere che è solo mio.
Ma starlo a fissare per più di sette minuti e mezzo fa un po’ zerbino, meglio alzarsi e preparare la colazione.
Il reggiseno è rimasto impigliato alle cinquanta sfumature di grigio brizzolato, il vestito me lo ha tolto a un passo dalla porta… quindi? Che mi metto?
Mi serve una cosa facile. Per esempio: una t-shirt. Una delle sue. Con il suo profumo. Ma il miscuglio esplosivo che mi invade — fatto di euforia mescolata a eccitazione — viene detonato un secondo più tardi: quando realizzo che devo aprire uno dei suoi cassetti per averne una.
Penso subito a una foto con la brunetta, che l’intonaco si è sbagliato, che questo non è un sogno, è un incubo, ma trovo il coraggio di aprirne uno e trovo ciò che mi serve. La prima maglia della pila: bianca, over e profumata.
Sto per chiudere il cassetto, ma poi ci ripenso. Mi volto, controllo Paolo che continua a dormire, intrufolo la mano nel cassetto, sollevo l’ultima t-shirt della pila e non trovo nessuna foto. La mano si allontana, scivola via e chiude il cassetto. Mi volto di nuovo per accettarmi che Paolo sia ancora come l’ho lasciato: con il reggiseno in testa, e mi concedo il lungo sospiro di sollievo che merita una scena come questa.
Infilo la maglia, mi guardo allo specchio: deve essere una di quelle che si mette quando gioca a tennis, mi sta bene.
Felice e soddisfatta, mi ravvivo i capelli ed esco dalla stanza da letto.
Muoio di fame e francamente, merito di più di due uova fritte. Un piatto di spaghetti: ecco cosa ci vorrebbe.
E mentre la tentazione del carboidrato mi importuna, la luce del sole, che entra dalla vetrata del salone, si trasforma in un riflettore, illuminando un pacco regalo che sta sopra il tavolino della zona divani.
Un eccesso di presunzione mi fa pensare che possa essere per me, mi avvicino. Mi siedo sul divano, lo guardo. È di dimensioni medie, non ho idea di cosa sia, ma più di tutto, mi chiedo se fosse lì già da ieri sera. È probabile.
C’è una piccola busta sopra la scatola.
“Per Eva.”
Mi ha comprato un regalo e ha aspettato che tornassi per darmelo.
Non voglio aprirlo, mi accontento di sapere cosa mi ha scritto. Afferro la busta e noto che è stata chiusa senza usare l’adesivo: potrei sbirciare. La apro, prendo il cartoncino tra le dita e leggo:
“Anche se il mio regalo di Natale è arrivato in ritardo, il mio cuore sarà sempre qui ad aspettarti. Ti amo amore mio.”
Avrei voglia di un Bocconcino Dai Dai.
Si può essere più dolci di così?
Nemmeno nel migliore dei sogni femminili, un uomo ti scrive un biglietto come questo. Specie se penso che lo ha scritto mentre ero in vacanza con il mio ex marito.
Sono pronta. Credo sia giunto il momento che Sofia conosca la mia nuova chance.
Ma ciò che sembra essere un felice traguardo per una donna, diventa un casino per una mamma. Perché una mamma deve pensare a salvaguardare il bene dei bambini, e scervellarsi un attimo per capire il modo migliore di agire.
Mi faccio troppi scrupoli? Può darsi. Ma so cosa ho passato e non voglio ripetere gli errori dei miei genitori.
Mi alzo dal divano, presumo sia fame nervosa, ma sento la necessità di andare in cucina. Scosto le tende della finestra e vedo il pontile delle passeggiate con la nonna.
Mi basta uno sguardo per tornare indietro nel tempo. A una mattina d’estate di tanto tempo fa.
Io e la nonna stavamo sedute in fondo a quel pontile, guardavamo il mare, chiacchieravamo.
Amavo il suo modo di prendersi cura di me. Riusciva sempre a farmi ridere, e seppure tentasse di non darlo a vedere, mi scrutava, in ogni momento. Perlustrava il mio viso in modo impercettibile, senza tralasciare nessuno dei suoi muscoli. Si soffermava più a lungo sugli occhi, domandandosi come stavo, non avendo il coraggio di chiedermelo.
Quel giorno lo fece.
“Come stai?”
“Sto bene.” mormorai. “Qui con te sto bene.”
La nonna sorrise, ma senza guardarmi, continuò a fissare il mare con l’espressione felice di chi gode di quello spettacolo.
“Ti piace stare qui?”
“Tantissimo.” risposi.
Feci come lei: chiusi gli occhi e mi lasciai cullare dal soffio del vento, non pensai a niente.
A un tratto, la sua mano sfiorò la mia.
Mi guardò, mi sorrise, lesse il mio viso e decise che per il mio bene, fosse opportuno parlare di ciò che stava succedendo. Avevo sette anni e non ne avevo mai fatto parola a nessuno. Ma lei sapeva cosa succedeva a casa mia.
Volle rassicurarmi, mi disse che i miei genitori attraversavano un momento difficile, ma che non avrebbero mai smesso di volermi bene. La ascoltai, la abbracciai, piansi.
Se avessi potuto scegliere, sarei rimasta con lei per sempre, ma la vacanza stava finendo, e presto sarei tornata a essere la spettatrice passiva delle liti tra mamma e papà.
Il ricordo si interrompe, torno al presente: al mio appetito, a Sofia, al bisogno di proteggerla.
Sono stata bombardata da fonti di stress e francamente non la ricordo come un’esperienza positiva. Non voglio commettere gli stessi errori che ho subito. Sofia ha bisogno di tempi di adattamento e credo di averli rispettati. Ho avuto pazienza, ho cercato di gestire le cose nel modo migliore: sono fiera di me. Ora so di meritare la fetta di felicità che mi spetta e vorrei che Paolo conoscesse Sofia.
In una zona franca. È necessario.
Mi dico decisa mentre apro il frigorifero per redigere un rapido inventario.
Avocado
Mele
Arance
Prosciutto
Formaggio
Uova
Burro
Yogurt greco
Latte
Prima apparecchio, poi penso al menu.
Ed eccolo lì: il cassetto delle tovaglie.
Mi guarda con aria di sfida, io me ne frego, lo apro. Le dita vanno dritte verso il fondo e sfiorano una sagoma rettangolare: sembra essere la stessa della foto. E invece è un ricettario.
Domandarsi, ora, dove possa essere finita rovinerebbe la poesia del momento, meglio gioire del fatto che la bionda è sparita, e preparare la tavola.
Dove ero rimasta? Già: alla zona franca.
Un luogo sicuro, sereno e tranquillo dove poterle fare conoscere Paolo, dopo averle spiegato che sta succedendo.
Sbuccio gli avocado, vagliando le ipotesi che mi frullano in testa.
Ammetto che il mio lato oscuro è affascinato da uno scambio a un casello autostradale, ma potrebbe sembrare un rapimento di minori. Eccitante, ma poco verosimile. Torniamo seri.
Potrei chiedere a Davide di venire qui, ma anche questa soluzione mi dà l’idea di un passaggio del testimone.
E mentre metto a tostare il pane, penso che tornerò a casa, aspetterò il rientro di Sofia e le dirò che faremo un paio di giorni al mare. Sfrutterò il tragitto in auto per spiegarle dove stiamo andando e da chi.
Questa casa sarà la zona franca.
Lo decido nello stesso istante in cui scelgo di accompagnare gli avocado toast a una torta di mele. Mi abbasso ad accendere il forno e quando mi rialzo, Paolo è di fronte a me.
Il mio reggiseno non è più tra i suoi capelli e oltre alle mutande, indossa la camicia bianca di ieri sera. Non è abbottonata, è sexy.
“Buongiorno!” dico sorpresa.
Lui si avvicina, non mi toglie gli occhi di dosso, mi afferra per la vita e mi bacia. Come succede nei film. Non riesco nemmeno ad abbracciarlo: ho le mani sporche di avocado.
“Carina la maglia.” dice con uno strano sorrisetto. “Vieni con me…”
Mi pulisco con uno strofinaccio, lo seguo, va verso il salone. Si volta, mi prende la mano, mi invita a sedermi sul divano, lui prende posto accanto a me.
Ancora la sua bocca sul mio collo, le sue labbra che bisbigliano al mio orecchio: “questo è il mio regalo di Natale.”
Mi fingo più stupida di quanto dovrei, non voglio rovinargli la sorpresa, ma anche io sono curiosa di sapere cosa nasconde quella scatolina.
“Leggi il biglietto” dice cingendomi la vita.
Ma non resta a guardarmi, si alza e si dirige verso una piccola consolle che tiene su un piano della libreria: mette una canzone.
E sulle prime quattro battute di riff di chitarra, dice di aver pensato molto a me, di dover dirmi una cosa e mi chiede di aprire il regalo.
Da quando ho scoperto che liberarsi della carta che lo avvolge, senza alcun ritegno e con una certa foga, non solo è concesso, ma è addirittura di buon auspicio, farla fuori sarà un piacere.
Accompagnata dalle successive quattro strofe, dove il basso doppia il riff, arrivo alla sorpresa: il modellino di una moto.
Non so cosa pensare. Lo guardo con un’espressione curiosa.
Alla nona battuta entrano batteria e seconda chitarra. Io vedo solo che sulla carenatura rossa c’è scritto GILERA 125.
La scatola che la contiene è già stata aperta. L’involucro in plastica che racchiude la moto è socchiuso. Cosa c’è lì dentro? Ma il semisberluccichio che mi pare di avere intravisto, non è la sola sorpresa che mi aspetta: Paolo sembra uno dei California Dream Man, ha preso un trofeo di tennis dallo scaffale e lo sta usando come microfono.
“Motocicletta 10 HP, tutta cromata, è tua se dici sì.”
Sta cantando. Non avevo mai pensato a una versione musical di Cinquanta sfumature di grigio, ma mi piace.
“Mi costa una vita, per niente la darei,
ma ho il cuore malato e so che guarirei.”
Ammetto che un modellino non era sulla mia letterina di Babbo Natale, ma trovo che l’idea sia originale.
“Non dire no.”
Lo dice altre tre volte. Come il testo prevede. E io continuo a non capire di cosa stia parlando.
Poi, si mette in ginocchio di fronte a me.
Appoggia la statuetta sul tavolo e aspetta la strofa successiva.
“Lo so che ami un altro…”
Vorrei interromperlo, dirgli che ora dovrebbe pensarla diversamente, ma la sua mano afferra il mio viso, attira la mia bocca alla sua e bisbiglia: “l’avevo pensata prima di stanotte…”
Mi strizza l’occhio. Sono sollevata che sia solo un’esigenza di copione. E riprendo ad ascoltarlo.
“Io sono un disperato, perché ti voglio amare. Stanotte, adesso, sì.”
Sono ufficialmente eccitata. Chi se ne importa di quello strano bagliore che sembra provenire dal faro della moto?
Lo voglio. Adesso.
Allungo le mie labbra verso le sue, ma lui è irrefrenabile, continua a cantare, impegnandosi come Vasco Rossi: quanto posso reggere ancora?
“Mi basta il tempo di morire, fra le tue braccia così. Domani puoi dimenticare tutto, ma adesso, adesso dimmi di sì.”
Le mani di Paolo sollevano l’involucro di plastica. Raggiungono il faro. La destra fa scivolare la vera sorpresa sul palmo della sinistra: è un anello.
Difficile descrivere cosa provo in questo momento. Il sentimento prevalente è la frenesia, scatenata dal pensiero di una nuova vita con lui.
“Dimmi che sei mia, che sarai mia per sempre, dimmi di sì…” mormora.
Nello spazio tra un sì ed un no, c’è tutta una vita. E’ la differenza tra il sentiero che percorri e quello che ti lasci alle spalle; è la discrepanza tra chi credevi di poter essere e chi sei veramente. E ora sono sua. Lo stringo a me e dico sì.
QUARANTACINQUESIMO EPISODIO
Illustrazione: Valeria Terranova