primi due giorni a New York sono trascorsi velocemente e sono arrivata alla conclusione che se dovessi fallire con la mia collezione per Blumarine, potrei fare fortuna con il progetto “insegna al tuo cane a fare pipì sul divano”.
Lo avevo detto che sarebbe stato infallibile: il divano del nido d’amore è da buttare.
Mi sono sentita appagata, molto appagata, ma ho mostrato la mia solidarietà fingendomi dispiaciuta e disponibile a rimediare. E quando si recita così bene, la sola cosa che puoi sentirti dire è: “non importa… capita.”
Davide sembra essersi rassegnato.
Sofia mi manca. Mi manca moltissimo.
Ho cercato di consolarmi passando una giornata intera da Fao Schwarz: il negozio per bambini più famoso di New York che ha riaperto proprio il mese scorso.
La notizia della sua chiusura, avvenuta circa tre anni fa, mi aveva scosso.
La vendita online aveva contribuito a produrre una concorrenza spietata, l’affitto dei locali, all’interno del General Motors Building, aveva raggiunto costi stratosferici e il paradiso di grandi e piccini, il locale storico che per generazioni aveva regalato l’entusiasmo, la magia e il profumo dei giocattoli aveva chiuso i battenti per sempre. Ma qualcuno ha deciso di salvare questa istituzione, riaprendo il celebre negozio dentro il Rockefeller Center, accanto al grande albero di Natale, al piano terra del grattacielo che si affaccia sulla famosa pista di pattinaggio.
Quanto avrei voluto che Sofia lo avesse visto, sarebbe rimasta a bocca aperta.
E visto che è toccato a me fare le veci di mia figlia, ho ripescato la bambina che era in me, che credevo di aver smarrito per strada, ed è stato meraviglioso.
Un intero reparto dedicato al mondo di Barbie, uno per i peluche di tutte le stazze e un altro ancora, simile a una nursery, destinato ai bambolotti in fasce: sembrano essere i giocattoli di punta di questo Natale. Il reparto Lego, invece, avrei voluto raderlo al suolo con un lanciafiamme, ma immaginare il via vai di gente che sarebbe fuggita urlando dall’edificio — e le sirene spiegate dei pompieri in lontananza — mi hanno dissuaso.
Sono uscita con quattro peluche di medie dimensioni, cinque Barbie in edizione limitata, un bambolotto vestito di rosa con pannolini e biberon, e un trolley di Hello Kitty che sostituirà il solito pacco regalo e che imbarcherò con me alla partenza.
Ammetto di aver esagerato, ma sentivo il bisogno di redimermi dal senso di colpa causato dalla mia lontananza.
Immagino Sofia con Andrea e la sola consolazione — oltre alla pipì sul divano — è il discorso di Olivia riguardo alle soddisfazioni professionali.
Il tempo trascorso lontano da Sofia mi arricchirà in modo diverso, farò tesoro di questa esperienza che le racconterò e vedrà un mondo che ancora non ha visto, ma che la farà sentire felice e orgogliosa di me.
Deve essere così.
Se è vero che il tempo è fatto per volare e sono le cose che facciamo a restare impresse nella memoria di chi amiamo, allora credo che la collezione che ho immaginato dovrà essere indimenticabile.
Sono seduta alla scrivania della mia stanza, di fronte a un moodboard che finalmente ha preso forma e ho le idee molto chiare.
Ho ripensato alla prima volta che sono stata qui: vent’anni appena compiuti, il mio primo volo intercontinentale, il viaggio per la festa di laurea di Valentina, la mia amica di sempre che non sento da secoli, e non immaginavo che il resto del mondo che avrei visto da quel momento in poi mi sarebbe sembrato piccolo. Oggi, come allora, trovo New York magnifica come le donne che la abitano.
Ho passato tutto il pomeriggio seduta in una bakery ad osservarle e tutte hanno un sapore inconfondibile, un po’ come la torta di mele che ho assaggiato per sentirmi ispirata.
C’è chi corre per raggiungere la metro, chi si limita ad alzare un braccio per fermare un taxi. Chi indossa i tacchi, chi un paio di ginniche, sono diverse, ma pur sempre particolari. Ciò che le distingue è qualcosa di innato, quella strana abilità nel mescolare stili differenti fino a crearne uno unico e irripetibile. L’azzardo che si fonde con l’armonia, l’immagine di una donna sicura che non ha nulla da temere.
Decido di rientrare in albergo e di fare due passi a piedi per smaltire la torta, la mia mente è totalmente concentrata sulla teoria dello stile inconfondibile delle donne di New York.
Sto passeggiando sulla Madison, il freddo è pungente, non sento più la punta del naso, ma le luminarie che vedo appese ovunque, fanno sembrare Manhattan ancora più bella. E lì, davanti a una vetrina — più precisamente di fronte a una borsa di Chanel da quattromila dollari — sento un paio di colpi sulla spalla.
Mi volto e una ragazza dall’aspetto incavatevole mi sorride e si complimenta per la mise. Ammetto che questa cosa mi succede spesso, ovunque io sia, qualcuno rimane colpito da qualcosa che indosso e non può fare a meno di dirmelo. È piacevole.
La ragazza mi chiede la marca del piumino. Maison Martina Margiela.
Nero, lungo, scollo rigido a barca — è il piumino che ho sempre immaginato sul dottor Spock di Star Trek. Ecco perché lo indosso sempre con una cintura: in onore della sua uniforme. Anche i pantaloni le interessano: rosa, damascati, Giambattista Valli.
Dice che sono magnifica, favolosa, che ama il mio stile. Capisco ogni parola, la ringrazio, arrossisco.
Mi chiede di dove sono — forse la reputazione del mio povero inglese mi precede — e quando le dico di essere italiana, impazzisce letteralmente.
Rinnova i complimenti e si congeda con una frase che mi lascia perplessa: il vostro stile è inconfondibile.
La vedo allontanarsi e ripenso a me seduta in quella bakery, sento ancora il sapore della torta che mi accarezza il palato e in quel momento di dolcezza, la mia teoria va in frantumi.
Quante delle ragazze che mi hanno colpito oggi erano davvero di New York?
Quante erano turiste come me?
Forse sono i luoghi che frequentiamo a farci sentire speciali. E a New York sembra sempre di stare sotto i riflettori. Basta pronunciare il suo nome: Niuyyorch e tutto cambia. — Non ci vuole un genio per capire che a Quarto Oggiaro risulta un po’ più difficile.
Ciò che devo fare è trasferire questa energia all’intera collezione.
La matita batte tre colpi sul bloc-notes che giace alla mia destra, pronto a prendere appunti, ma lo Skyline mozzafiato che vedo dalla grande vetrata della mia stanza mi cattura. Il sole sta tramontando, Manhattan è pronta ad accendersi e il mare che la abbraccia riflette la sua immagine: deliziandomi con la versione vibrante di New York che segue il movimento sinuoso delle onde. Resto lì ad ammirarla, sorrido crogiolandomi in quella malinconia fascinosa e quando mi accorgo dell’orario, mi viene una sincope.
Ossantocielo. Michi mi aspetta tra mezz’ora al Rockefeller Center per lo shooting: non ce la farò mai.
Corro in bagno, faccio pipì mentre mi lavo i denti e sugli incisivi — che ho sempre ritenuto la parte più importante — il telefono suona.
Ma perché dico io? Non mi sembra di aver sottoscritto un abbonamento che prevede la ricezione di chiamate nei momenti più inopportuni. È come se qualcuno mi spiasse con un binocolo e desse il via a chi chiama per movimentarmi la vita.
Mollo lo spazzolino, mi precipito sul telefono e rispondo.
“Clara, ciao!”
“Ti disturbo?”
“Ho un appuntamento in centro tra mezz’ora, posso chiamarti sul taxi?”
“Stavo andando a dormire…”
Il fuso. Lo avevo dimenticato.
“Okay, scusa: dimmi tutto.”
“Stavo pensando al giorno di Natale… al pranzo di Natale e mi farebbe piacere se almeno per quella giornata, potessimo accantonare la separazione e rimanere tutti insieme come abbiamo sempre fatto. Che ne pensi?”
Ho pensato ai regali, ho immaginato il mio ritorno a casa almeno mille volte, ma il mio inconscio deve aver volutamente evitato di prendere in considerazione il giorno di Natale vero e proprio. E seppure una parte di me sia ben disposta a mettere da parte le tensioni dell’ultimo periodo per il bene di Sofia, l’altra è consapevole che riuscirci sarà difficile con la Lego Friend tra i piedi. Ho accettato il loro nido d’amore, ma per assurdo, non tollero la sua presenza in casa di mia suocera. Non so se descriverla come una forma di gelosia o una semplice difesa del territorio.
“Devo rifletterci…” mormoro. “Anche io vorrei che Sofia avesse il Natale di sempre, ma mi sentirei a disagio in presenza di Andrea, non credo sia il caso di…”
“Andrea non ci sarà.” mi interrompe lei. “Passerà il Natale con la sua famiglia e anche tu dovresti passarlo con la tua.”
Le sue parole mi spiazzano e mi lusingano allo stesso tempo. Vorrei dilungarmi, parlarle, spiegarle ciò che sento, ma i minuti scorrono inesorabilmente e me ne restano sempre meno per prepararmi e raggiungere Michele.
“Ti ringrazio per l’invito, ci saremo.”
Lascio cadere il telefono sul letto. Ripenso alla sua premura, ai suoi modi gentili che mi hanno sempre dimostrato il suo appoggio: è una grande donna. Io, invece, sono un disastro e per giunta in mutande. Cosa mi metto?
Apro il guardaroba, la piccola selezione che mi ha seguito restringe il campo e la possibilità di errore, ma come sempre succede, quando si ha fretta, il cervello subisce un blackout: tutto si spegne. Nessuna idea, nessun suggerimento da casa.
Dopo venti minuti sono sul taxi.
Visto e considerato che stasera è Michele il vero protagonista della situazione, anche il mio look si è adeguato al ruolo marginale che mi spetta: sono la sua aiutante, dovrò aiutarlo ad allestire l’albero per la campagna pubblicitaria e ho preferito mettermi qualcosa di comodo, facile, poco impegnativo. Jeans, parka imbottito, scarponcino anti reuma, maglione pesante. In Canada sarei perfetta, ma temo troppo il freddo e questa è la combinazione più carina che ho trovato per non morire assiderata.
Il taxi giunge a destinazione, pago e scendo. Ho solo tredici minuti effettivi di ritardo: Michi capirà.
E se invece si arrabbiasse? Se il tempo prezioso che gli ho sottratto lo avesse messo in difficoltà? A quel punto credo che mi metterei a dire cose fuori luogo, tipo: questo spostalo più a destra, l’altro po’ più a sinistra, inverti i colori, qui la luce è migliore, sì insomma tutto ciò che servirebbe a farmi buttare fuori dal set dopo un paio di minuti. Eviterei una lite, salverei un’amicizia e farei un giretto per negozi per comprargli un regalo.
Ora che ho un piano B, ho anche il coraggio di chiamarlo.
“Sono arrivata, vedo l’albero, ma tu non ci sei…”
“Raggiungimi alla caffetteria che trovi sulla destra, sono seduto con una cioccolata in tazza…”
“Fantastico! Arrivo.”
Non so perché, ma lo avevo immaginato teso, sotto pressione, nervoso e invece il suo tono è completamente rilassato.
È pur sempre un albero di venticinque metri, ma il mio amico sembra avere tutto sotto controllo.
Arrivo alla caffetteria e vedo Michele seduto al tavolo: non c’è solo la tazza di cioccolato, c’è anche un ragazzo con lui. Si accorge di me e mi fa segno di raggiungerlo.
“Eccoti finalmente!”
Si alza, mi abbraccia e mi presenta.
“Eva, lui è Raffaello.”
Raffaello La Tartaruga?
L’espressione di Michi è quella di chi si aspetta una reazione, non una reazione qualunque. I suoi occhi cercano la mia approvazione, ma lì per lì, riesco solo a chiedermi perché non mi abbia detto che lo avrei incontrato. Se voleva farmi una sorpresa ci è riuscito.
Allungo la mano verso quella di Raffaello, la stringo, sorrido. Scruto il suo viso nel disperato tentativo di trovare qualcosa che non va, ma non ci riesco: è carino e anche nel suo sguardo ritrovo lo stesso desiderio di approvazione di Michele.
“Finalmente ti conosco.” dico felice.
Sto attingendo dal mio repertorio “frasi di circostanza” e pare funzionare.
“Anche io ero curioso di conoscerti, Michele mi ha parlato tantissimo di te.”
Non fatico a crederlo: io sono nella sua vita dalla notte dei tempi, tu invece sei appena arrivato.
“Dice che sei spiritosa, fantastica, stilosa…”
I complimenti che riporta sembrano sentiti, ma se avessi saputo che lo avrei incontrato, non avrei scelto questa mise da rifugio di montagna. Mi sarei infilata un paio di Manolo, un jeans super skinny, la mia giacca varsity travestita da blazer e il mio poncho di Chloé, ma è troppo tardi. Non mi resta che concentrarmi sull’aggettivo ‘spiritosa’, e mentre cerco una battuta divertente con cui cominciare, Michi mi anticipa.
“Vado a ordinarti da bere, il solito?”
Di sicuro si sta riferendo al whisky e sì: credo di averne bisogno.
“Okay.” rispondo.
Michele si allontana e ho l’impressione che la mia dose di alcol sia soltanto un pretesto per lasciarmi sola con il suo ragazzo: non ho via di uscita.
“Michi mi ha detto che sei a New York in cerca d’ispirazione.”
“Sì, esatto. Sono una designer di accessori, ma questa volta mi piacerebbe creare qualcosa di diverso, una collezione più ampia… ci sto ancora pensando… ma credo di essere sulla buona strada.”
E tu invece? Che diavolo ci fai qui?
Puoi fare di meglio, coraggio.
“Anche tu sei qui per lavoro?” gli chiedo.
“Michi non ti ha detto niente?”
Giuro che ci ho messo tutta la buona volontà per essere gentile, ma questa non può essere una conversazione fatta di battute di circostanza. Sono di fronte all’uomo che si è preso un pezzo di cuore del mio migliore amico, l’uomo che mi sta ponendo una domanda lasciandomi intendere che Michele abbia dimenticato di informarmi su alcune questioni, e se devo farmelo piacere, sarà meglio giocare a carte scoperte.
“No, non mi ha detto nulla. Non mi ha detto che sarebbe venuto a New York, non mi ha detto che anche tu eri qui e nemmeno che ti avrei conosciuto oggi — o avrei messo qualcosa di più stiloso, giusto per citare la tua espressione — ma è una delle persone più importanti della mia vita e forse sono io a non averlo messo nella condizione ottimale per parlarmi di te.”
La Tartaruga mi guarda sorpresa.
“Io sono quello che gli ha commissionato lo shooting perché volevo che ti seguisse a New York.”
Adesso sono io ad avere un’espressione meravigliata.
“Quindi sei tu Styletto?”
“In persona. Quando mi ha parlato di te, della tua nuova opportunità di lavoro e del tuo invito, ho deciso che questa poteva essere un’ottima occasione e non solo per la collezione natalizia, soprattutto per conoscerti e farti una buona impressione.”
Mi sorride, ha gli occhi di un cucciolo.
Avevo immaginato il nostro incontro, ma non così. Pensavo gli avrei dato filo da torcere, che avrei messo in discussione lui e il suo interesse per Michele. Ma ha fatto tutto questo per lui… e anche per me, senza nemmeno conoscermi.
Non riesco a trovare una sola ragione per non concedergli una possibilità.
“Tieni molto a lui, vero?” gli chiedo.
“È la persona più importante della mia vita.”
“E io sono compresa nel prezzo.” mormoro.
“Lui è speciale e mi piace pensare che le persone che ruotano attorno al suo mondo, siano altrettanto speciali.”
Suona come un complimento.
Anche io gli sorrido.
“Quindi disegni scarpe?” gli chiedo togliendomi la giacca. “E il nome? A chi è venuto in mente?”
“A me.”
“Complimenti, è una bellissima idea.”
“Be’, a essere sincero, è stata la rivista che legge mia madre a fornirmi lo spunto.” sussurra. “Ma la Y al posto della I è tutta farina del mio sacco.”
“Geniale.” dico strizzandogli l’occhio.
E lì, seduta su quella sedia, aspettando il mio bicchiere di whisky, realizzo che seppure in modo tacito, io e Raffaello abbiamo stretto un patto di non concorrenza — ma per gli accessori non garantisco.
TRENTACINQUESIMO EPISODIO
Illustrazione: Valeria Terranova