on so dove stiamo andando, ma so che stiamo per metterci in viaggio. E a giudicare dal numero di valigie che abbiamo caricato in auto, staremo via per un bel po’. Non importa dove si va, mi basta stare con loro: con la mamma, il papà e la piccola Silvia, la mia amica del cuore, che mi tira sempre la palla per giocare. È mattina presto. A dirmelo è la lingua, che non è ancora caduta a penzoloni, ma in questi giorni d’estate, dopo l’ora della pappa, c’è così caldo che quasi fatico a respirare. Di solito, cerco un po’ di ombra sotto il ciliegio, vicino alla mia ciotola d’acqua sempre fresca, e provo a dormire, aspettando che il cielo diventi rosa: quando l’afa se ne va e arriva quel venticello leggero che mi fa scodinzolare.
“Leo, andiamo!”
Il papà mi sta chiamando. Prendo in bocca la mia palla e lo raggiungo. Sta lì: in piedi, vicino all’auto, apre la portiera e mi invita a salire. Lascio cadere la palla vicino alle mie zampe, poi mi volto, ma loro non ci sono. Dov’è la mamma? Dov’è Silvia? Partiamo senza di loro?
“Leo, andiamo!” mi ripete.
Riprendo la palla che ho lasciato cadere e salgo in macchina con lui, sul sedile che sta vicino al suo, su cui è steso un piccolo telo che profuma di casa. Papà accende la scatola da cui esce la musica, infila gli occhiali e si mette in marcia.
Mi piace viaggiare: si chiacchiera, si ride, si canta. Di solito, sto dietro con Silvia, che mi accarezza sempre, ma oggi devo aver meritato il posto d’onore, sono davanti: mi sento importante. Guardo fuori dal finestrino, vedo la scuola, il parco giochi, il supermercato, e quella strada lunga lunga che ci conduce fuori dal quartiere, lontano da casa. Ma perché noi due soli? Non so rispondermi, mi accuccio vicino alla palla e chiudo gli occhi, aspettando di arrivare. La macchina si ferma, mi sveglio all’improvviso sentendomi eccitato, felice, ma quando guardo fuori dal finestrino, non c’è niente: solo una grande distesa di erba secca, in mezzo al nulla. Perché siamo qui? Papà si toglie gli occhiali da sole e li appoggia sul mio sedile. Sembra pensieroso, non parla, non mi guarda nemmeno. Io scodinzolo, prendo di nuovo la palla in bocca, cercando di attirare la sua attenzione, il suo sguardo, e ancora niente: non sembra fare caso a me, i suoi occhi continuano a fissare la grande distesa di erba.
“Andiamo.” dice.
Prende la palla dalla mia bocca e mi fa cenno di scendere. Vuole farmi giocare: ecco perché siamo qui. Un balzo e sono fuori dall’auto. Che caldo. Oggi, anche più del solito: il sole è così forte che sembra già ora di pranzo. Avrei voglia di tornare in macchina. Mi guardo intorno desolato e non vedo zone d’ombra: nemmeno un albero. Cerco di usare il mio fiuto per orientarmi, ma sento solo l’odore del carburante delle auto di cui riconosco il rumore in lontananza, il profumo dell’erba e quello di casa, che proviene dal telo su cui ero seduto. Non conosco questo posto, non ci sono mai stato. Anche papà è spaesato quanto me: non sorride, ha il viso preoccupato. Forse ci siamo persi.
Si guarda le spalle, una, due, tre volte, poi si china ed è di fronte a me. Appoggia la palla sul prato, io scodinzolo, vorrei tranquillizzarlo: sono sicuro che riusciremo a tornare a casa, ma lui non mi guarda. Non solo è distratto da altro, sembra quasi frenato dal farlo. I suoi occhi continuano a fissare l’orizzonte, quando all’improvviso, mi scioglie il collare, lo infila in tasca e si rialza, tirando un calcio alla palla, verso quella grande distesa di erba.
“Corri Leo, corri!”
Mi piace quando mi incita, dimentico tutto: il posto che non conosco, la sua preoccupazione, il caldo afoso; penso solo a correre e a raggiungere la palla che è appena caduta al suolo. La stringo tra i denti, immaginando il momento in cui gliela riporterò vittorioso, ma quando mi volto, papà non c’è più. Corro, corro più velocemente che posso, per tornare dove lo avevo lasciato, ma anche la macchina non c’è più. Dov’è andato? Lascio cadere la palla dalla bocca e mi guardo intorno di nuovo. Abbaio, abbaio ancora e nessuno mi sente, nessuno mi chiama: sono solo. Papà non può avermi lasciato qui di proposito, non lo farebbe mai, io lo conosco. Deve essere tornato a casa a prendere la mamma, Silvia: devo solo aspettare che tornino a prendermi. Non so dire quanto tempo sia passato, ma ho tanta sete e qui non c’è acqua, non c’è cibo, nemmeno un piccolo albero sotto cui ripararmi dal sole… cosa ne sarà di me? La tentazione di correre nella direzione da cui siamo venuti e ritrovare da solo la strada di casa è forte, ma se lui tornasse e non mi trovasse più? E poi, ci sono tante macchine e so bene quanto sia pericoloso. Ma ho fame, ho paura, se resto qui non sopravviverò. Ripenso alla mia pianta di ciliegio, alla mia ciotola di acqua fresca, alle carezze della mia piccola amica e sono assalito dalla più cupa delle disperazioni. Perché papà mi ha tolto il collare su cui sta scritto il mio nome? Perché non torna a prendermi? Sarò forte, ci sarà da camminare un po’, ma tornerò a casa… e invece sono così stremato da perdere i sensi, immaginando di essere tra le braccia di Silvia, che mi stringe forte.
Illustrazione: Valeria Terranova