l dottor Savastano cammina sul lato opposto della strada, supera l’auto dietro cui siamo nascoste senza accorgersi di noi, che, silenziose e immobili, continuiamo a seguirlo con lo sguardo.
“Dobbiamo pedinarlo…” dico sottovoce.
Nonostante la luce fioca dei lampioni, riesco a interpretare l’espressione di Cassandra e potrei giurare di leggere almeno un paio significati.
1. Sono incinta, non puoi chiedermi di mettere a repentaglio la vita di mia figlia.
2. Non eravamo venute per una vendita speciale di abiti da cocktail?
A entrambe le versioni non posso dare torto, ma io devo seguirlo: è la mia occasione per smascherarlo.
“Enrico ci sta aspettando, tu entra, io vi raggiungo.”
“Sei sicura?”
“Certo che sono sicura, vai!” ordino.
Cassandra si alza in piedi lentamente, si attacca al campanello, mentre io mi allontano dall’auto cercando di non dare nell’occhio.
Attraverso la strada con passo felpato e mi nascondo dietro un cassonetto dei rifiuti: il dottore gira l’angolo e imbocca una strada senza uscita che sta sulla destra.
Vista da fuori, sembro la Pantera Rosa, e se non avessi il cuore il gola, mi metterei pure a canticchiare la colonna sonora.
Raggiungo l’angolo, afferro il palo della luce che illumina la via e mi sporgo lentamente per spiare i suoi movimenti: lo vedo fermarsi davanti a un’abitazione, apre il cancello, entra e il cane lo segue.
Resto immobile, un po’ per la paura di essere scoperta, un po’ nella speranza che il mio cervello metabolizzi l’accaduto per suggerirmi cosa fare.
Dopo un minuto, non ho dubbi: devo arrivare al cancello e leggere il civico per fare una ricerca su Google.
Trovo il coraggio e faccio ciò che devo: 77.
Un vero agente segreto si allontanerebbe in modo discreto, infilerebbe le mani nelle tasche del suo impermeabile e ragionerebbe sul da farsi mettendosi la pipa in bocca, ma io sono solo un veterinario che non fuma, con un cappotto appena comprato e me la sto facendo sotto dalla paura: mi metto a correre, raggiungo l’edificio in cui Cassandra mi sta aspettando e suono il campanello. Quando la porta si apre, mi sento al sicuro.
“Ciao a tutti.” dico cercando di smaltire il fiatone.
“Tutto bene?” chiede Enrico.
I miei occhi si precipitano su quelli di Cassandra per carpire la versione con cui ha giustificato il mio ritardo, ma non ci vedo un granché.
“Gliel’ho detto.” dice risoluta.
Che cosa?
Mi sfugge una risatina nervosa.
“Che hai litigato con Luca e che eri al telefono con lui.” aggiunge.
Storce la bocca: credo sia il suo modo di farmi capire che devo abbozzare.
“Oh, sì certo… è tutto risolto” dico frettolosamente. “Dove sono i vestiti?”
“Fa sempre così quando litiga con il suo fidanzato: taglia corto.”
Lo sta dicendo come se non fossi presente, prendendo Enrico a braccetto per dirigersi verso una stanza che sta sulla sinistra.
Cassandra si è già fiondata sul campionario, io la raggiungo per avere spiegazioni, ma appena mi trovo di fronte allo stender a cui è appesa la lunga fila di abiti, non mi importa più di niente.
Un momento: che diavolo mi prende?
Ho appena scoperto che i miei sospetti sono fondati, che il dottore è un vile rapitore e a cosa penso? Ai vestiti?
Ho davvero venduto l’anima al diavolo.
Mi volto verso Enrico, tentando di dimenticare le dolci tentazioni a cui il mio sguardo non ha saputo resistere e aspetto che sia lui a dire qualcosa.
“Sicura che vada tutto bene? Sembri preoccupata…” mormora.
E ti credo, là fuori c’è Bufalo Bill del Silenzio degli Innocenti: i miei occhi lo vedono così.
“Tutto bene, davvero.”
Mi sta guardando con una strana espressione: e se il mio tono rassicurante — decisamente calcato per camuffare la preoccupazione — facesse intendere che la mia relazione è agli sgoccioli e che sono pronta a fare nuove esperienze?
“Melissa vieni a vedere…”
Mi volto di nuovo, mi sposto di un paio di passi e sono accanto a Cassandra.
“Guarda: non è bellissimo?”
Mi sta mostrando un lungo abito a balze rosso in stile spagnoleggiante: ai miei occhi è l’equivalente del drappo di un torero e io mi sento come il toro che sta caricando.
“Che motivo c’era d’inventarti una lite?” dico bisbigliando.
Cassandra sorride nervosamente, si volta verso Enrico e gli porge l’abito.
“Puoi dirmi quanto costa?” gli chiede.
Enrico controlla il codice sul cartellino e si allontana per recuperare il corrispettivo sui listini.
“Quindi?” chiedo sottovoce.
“Mica potevo dirgli che stavi pedinando uno sconosciuto… Anche questo lo conosciamo appena, penserà che siamo delle stalker…”
Perché non lo siamo?
Ma prima che possa ribattere, Enrico torna verso di noi.
“Eccomi… costa duemila e cinquecento euro: è un pezzo couture.”
Un pezzo di che?
Cassandra deve aver capito il termine, ma si sta reggendo alla stender per non svenire e ha il tipico sorriso di plastica di chi finge spudoratamente che la cifra sia abbordabile.
“È bellissimo.” mormora.
Ma mentre lo riappende, rassegnata all’idea di dirgli addio, mi colpisce con il gomito per attirare la mia attenzione:
“Dammi una buona ragione per non comprarlo… ti prego…”
“Costa duemila e cinquecento euro a prezzo scontato, non è un po‘ caro?” dico a voce bassa cercando di farla rinsavire.
“In effetti sto ingrassando, non mi sembra il caso di affrontare, ora, un’investimento che — in tutti i sensi — non è più alla mia portata.”
Il suo ragionamento non fa un plissé.
“Ma non me ne andrò da qui a mani vuote.” aggiunge.
Sembra una minaccia.
Cassandra, più determinata che mai, si mette a cercare qualcosa di più accessibile, io, invece, quasi senza accorgermene, sto accarezzando il filato morbido di un abito che ho amato dal primo istante: a longuette, sui toni del blu, scintillante, fiabesco.
“Perché non lo provi?” chiede Enrico.
È così evidente che mi piace?
“Sono curioso di vedere come ti sta…”
Anche io, vorrei aggiungere, ma sono più
curiosa di sapere quanto costa.
“Posso sapere il prezzo?” chiedo timidamente.
“Controllo… intanto provalo.”
E mentre mi fa strada verso il camerino, capisco di non aver via di scampo: adoro questo abito.
Entro, chiudo la porta e mi concedo un paio di secondi per ammirarlo. Mi convinco che potrebbe starmi male, che potrei usarla come scusa, ma dopo averlo infilato e aver realizzato che la taglia è perfetta, mi accorgo che non ci sono specchi: sono costretta a uscire.
“Come sto?” chiedo aprendo la porta del camerino.
“Sei incantevole…” mormora lui.
“Confermo.” aggiunge lei.
“C’è uno specchio?”
“Certo, vieni…”
Enrico mi prende per mano e mi conduce verso un grande specchio di cui non mi ero accorta. Sono in imbarazzo.
E non perché l’abito che indosso mi sta divinamente e la scusa che avevo in mente è ormai fuori gioco, ma perché vorrei liberarmi dalla sua stretta senza essere scortese.
Lo faccio istintivamente, per appoggiare le mani sui fianchi e spararmi una posa in cui sentirmi straordinaria, anche solo per un attimo.
“Quanto costa?” chiedo di nuovo.
“Sei davvero bellissima…”
Lo sta dicendo per convincermi a comprarlo o lo pensa davvero?
Ringrazio, ma quasi per circostanza, non voglio prendere in considerazione la seconda delle ipotesi, è una compravendita, devo rimanere concentrata.
“Trecentocinquanta euro.”
Allora ne voglio due.
“Okay, lo prendo.” dico soddisfatta.
“E per me non c’è niente che sia bello e scontatissimo?” chiede Cassandra che è rimasta a bocca asciutta.
“Ti faccio vedere…”
Sono le nove passate quando usciamo dall’edificio: del dottore non c’è traccia, tantomeno dei nostri risparmi, ma abbiamo due borse piene di abiti da cocktail e anche Karl Lagerfeld non avrebbe nulla da ridire: abbiamo fatto un affare.
Cassandra è felicissima e non ho ancora capito se sia per lo shopping o per la cena che avevo promesso a Enrico e che lei si è gentilmente offerta di organizzare a casa nostra la prossima settimana.
Lo salutiamo, carichiamo il malloppo e saliamo in auto. E appena il motore si accende, Cassandra inizia a parlare di lui.
“Hai visto come ti guardava?”
“Guardava i suoi vestiti su di me.” preciso.
“Smettila, ti ha fatto un sacco di complimenti…”
“Deformazione professionale.”
“Perché stai sulla difensiva?” ribatte.
“Non sto sulla difensiva… è che non mi è sembrato…”
O invece sì?
“Sei bellissima. Provati anche questo. Oh sì ti dona moltissimo. Sei incantevole… vuoi che vada avanti?”
“Ma da che parte stai? Ho un ragazzo adesso.” insisto.
“Lo so, lo so… ma sembra interessato a te… non ti eccita? Di’ la verità…”
“No.” dico secca tentando di troncare il discorso. “E piuttosto: dove devo accompagnarti?”
“A casa di Tommaso, grazie. E tu? Esci con Luca stasera?”
“Luca è partito stamattina per una fiera di cavalli, torna domani, credo che starò a casa con Max…”
“Sicura che non vuoi venire a cena con noi?”
“Ti ringrazio, ma ho sempre la questione del dottore da risolvere.”
E mentre pronuncio la parola ‘dottore’ mi sento rabbrividire.
“Melissa lascia perdere: le tue costole sono guarite, il sesso è tornato a far parte della tua vita, Max è a casa, che ti importa di lui?”
“Voglio sapere.” dico frustrata. “Se lo ha rapito una volta, potrebbe farlo di nuovo.”
“Non succederà…” mormora.
Siamo quasi arrivate a destinazione, quando mi accarezza la spalla e dice:
“E c’è un’altra cosa che devi sapere…”
Il tono è quello di annuncio importante: sono curiosa.
“L’ho dimenticato… dannati ormoni.”
“No! Cerca di ricordare, sforzati!”
Dimmi che il tuo ginecologo si è sbagliato, dimmi che aspetti un maschio, che lo chiamerai Jerôme e io lascerò perdere il dottore: è una promessa.
“Non mi viene… Puoi portare a casa la mia borsa di vestiti?”
È andata male.
Ho fatto la doccia, indosso un pigiama, una vestaglia di pile e un paio di calzettoni: mi rendo conto che così conciata non ho l’aria di un detective, ma confido su Fox Crime per calarmi nella parte.
Accendo la TV, mi butto sul divano con Max e dopo essermi coperta con un pile, apro il portatile per iniziare le indagini.
Possiedo un indirizzo, ora non mi resta che googlare il nome di Bufalo Bill e trovare una corrispondenza.
Le mani si precipitano sulla tastiera per digitare il suo nome: Pietro Savastano, premo invio e leggo la prima delle voci.
“Pietro Savastano, detto Don Pietro, è un personaggio della serie televisiva Gomorra, interpretato da Fortunato Cerlino.”
Anche lui non è uno stinco di santo, ma non è il mio uomo. Riproviamo:
Pietro Savastano dottore Modena.
Invio. Eccolo: c’è anche una sua foto.
Lo guardo con attenzione e non ci vuole un genio per capire che quegli occhiali a fondo di bottiglia nascondono lo sguardo di una persona mentalmente disturbata.
Leggo: Professor Pietro Savastano, medico chirurgo, specializzato in artrodesi lombare, deformità, ernia del disco cervicale, ernia del disco lombare, frattura della colonna, chirurgia della colonna.
Studio privato: Corso Europa 92, Modena.
Deduco che se questo è l’indirizzo dell’ambulatorio, il mio deve essere per forza quello dell’abitazione… E se non fosse così? Se fosse un locale con il classico scantinato da brivido preso in affitto per i suoi sequestri?
In effetti, da fuori non sembrava una casa.
Chiudo gli occhi e mi sforzo di concentrarmi sui dettagli per convalidare la mia ipotesi, ma ricordo soltanto il buio e la nebbia leggera che avvolge la luce fioca dei lampioni.
Fuori fa freddo, ho brividi. E so bene che non sono i due gradi sopra lo zero a farmi tremare, ma il ticchettio dei suoi passi che calpestano l’asfalto bagnato. Ho paura. Come adesso.
Catapulto la testa in avanti per smettere di pensarci, ma gli occhi si fiondano d’istinto sulla TV: su uno speciale del Silenzio degli innocenti.
Rimpiango di non aver scelto Il Grande Fratello, eppure non riesco a cambiare canale. Forse è un segno divino. Forse qualcuno, da lassù, mi sta dicendo che questo documentario mi aiuterà a risolvere il caso. Sottrarmi alla visione si tradurrebbe come una mancanza di rispetto nei confronti del volere divino, e non è il caso di scatenare l’ira di Dio.
Ho appena ritrovato la mia pace interiore — e il coraggio di farmi sto’ speciale — quando Max si mette ad abbaiare. Scende dal divano e corre dritto verso la porta. Chiudo gli occhi per la paura, ma davanti a me, c’è l’immagine del dottor Savastano con il sorriso abbietto di chi è venuto a prenderti per portarvi via.
Max continua ad abbaiare: ho una paresi alle gambe, non riesco a muovermi, sono terrorizzata.
“Che c’è?” chiedo tremante, rimanendo sul divano da cui non riesco a scendere.
Se fossi un killer, sfonderei la porta all’istante: con quella vocina flebile sembro una preda fin troppo facile.
Devo essere più convincente.
“Chi c’è?” chiedo impavida.
Chiunque sia sta cercando di entrare.
Sento le sue unghie che graffiano la porta, stridono: rabbrividisco. E se il dottore fosse Freddy Kruger con gli occhiali?
Trovo il coraggio di arrivare alla porta, forse per accertarmi di aver usato tutte le mandate a disposizione, e sento un
respiro affannato, un gemito, un principio d’infarto. I miei occhi atterriti si spostano verso il basso, guardano Max che nel frattempo si è accucciato a terra per puntare il naso sotto la porta: piagnucola.
Cosa faccio adesso?
Io non sono l’agente Starling.
Chiamo la polizia.
Ma mentre torno sui miei passi per recuperare il telefono, sento abbaiare e non è il mio cane.
Credo sia l’istinto, il senso del dovere, ma senza pensarci, mi dirigo verso la porta, guardo dallo spioncino e la apro: non è Bufalo Bill, è un bobtail come Max.
“Vieni dentro.” dico sollevata, mentre chiudo velocemente.
Mi volto e li vedo amoreggiare sul tappeto, si baciano, scodinzolano, sembra che si conoscano. Mi avvicino allo sconosciuto che è appena entrato e leggo l’incisione sulla medaglia appesa al suo collare: Lolita.
È il cane del dottore.
VENTISEIESIMO EPISODIO
Illustrazione: Valeria Terranova