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9 Feb

Positano: la prima volta

enrica alessi scrittrice crem's blog

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V

ivevamo nella nostra casa ed eravamo sopravvissuti al ‘primo mese insieme sotto lo stesso tetto’. Non era da tutti. Avevamo appianato le nostre divergenze in modo civile e io non avevo rotto neanche un piatto. Dopo aver stabilito i turni di pulizia della casa e aver impartito qualche lezione extra sulla faccenda ‘water-pipì’, tutto sembrava andare alla perfezione. Il caldo agosto era arrivato in città, era tempo di correre al mare. Positano: per la prima volta. I bagagli sono pronti sulla porta, Giaco deve solo caricarli in macchina.
“Amore, ci siamo.”
In quel momento, realizzo che un giorno pronuncerò la stessa frase in un contesto diverso. Mi vedo: sono sul punto di partorire, sono appoggiata allo stipite della porta e sudo come Rocky dopo che ha finito di allenarsi con Apollo Creed. Mi faccio aria sventolando il camicione giallo canarino con cui farei un figurone anche in sala travaglio, le acque si rompono, ma Giaco non si accorge di niente… Un po’ come adesso.
“Amore, le valigie sono pronte.”
Giaco mi raggiunge senza sapere cosa lo aspetta.
“Hai chiamato un’azienda di traslochi?”
“Hahaha. Spiritoso: questo è lo stretto necessario per la ‘prima vacanza estiva marito e moglie’. Cosa credi? Non voglio che si pensi che adesso che siamo sposati, mi trascuro, che non bado più al mio aspetto. Lo sai che faccio tutto questo solo per te?”
Dopo venti minuti, Giaco finisce di caricare la macchina. È stranamente silenzioso: credo che sia una tattica per evitare discussioni, ma il mio istinto suggerisce che potrebbe essersi risentito per la mole dei bagagli. Non voglio che tenga tutto dentro. Devo farlo reagire.
“Perché non parli?”
“Sono senza fiato. Si muore di caldo.”
Il mio istinto è un cattivo suggeritore.
“Andiamo, o non arriveremo più.” dice facendomi segno di salire.
In effetti, Giaco era un po’ preoccupato per il viaggio. Diceva che ci sarebbero volute dieci ore per arrivare. Io avevo risposto ‘sciocchezze’, ma dopo dieci ore e un quarto, siamo ancora per strada.
“Non vedo l’ora di scendere e di sgranchirmi le gambe.” dico immaginando il momento in cui il motore si spegnerà.
“Non sento più il piede sinistro.”
“No ti prego no! Non posso spingere da sola una macchina in salita. Resisti: mancano solo cinque chilometri.”
“Se siamo riusciti a superare i dodici di coda, lo dobbiamo solo al mio piede sinistro, che è rimasto incollato al pedale della frizione.”
“Si sa che a ferragosto è un esodo. Dai, sù, non ci pensare: tra poco starai seduto in una bellissima terrazza vista mare, e a farti compagna ci sarà un buon bicchiere di vino.” dico cercando di placare la stizza che sento nelle sue parole. Il vino e il mare sono venuti solo dopo il check-in, dopo aver battezzato il cassetto dei costumi, e dopo aver sistemato spazzolini e dentifricio. Poi c’è stato un brindisi e anche un bacio al tramonto. La mattina seguente mi sveglio con un certo appetito. Sarà l’aria di mare, mi dico. Giaco sta ancora dormendo, sgattaiolo fuori dal letto e mi affaccio al balcone per gustarmi il panorama. Sono senza fiato: sullo specchio d’acqua che ho di fronte, ci sono due file di barchette che sembrano stare lì come piccoli soprammobili. Il verde intenso delle piante si mescola al viola vivace delle bouganville creando un effetto sorprendente. E poi, cosa sarebbe Positano senza le piccole case arroccate sulla collina? E senza quella grande cupola in maiolica piastrellata di verde, giallo e blu? Lei è senza dubbio il simbolo di questa città, credo sia la Chiesa di Santa Maria Assunta, e quella laggiù è la spiaggia di Marina Grande. Voglio uscire, sono stanca di guardarla da qui: io voglio viverla. Devo solo svegliare Giaco. Scendiamo a fare colazione sulla grande terrazza, e cominciano a farci un’idea della spiaggia in cui andremo. L’albergo ha una scala con cui si accede direttamente allo stabilimento balneare più bello: la Scogliera. A gestirlo c’è un tipo simpatico che si chiama Cicchetto. Ci assegna un paio di lettini al sole e ci porta una bottiglia d’acqua. Questo è un vero paradiso. Finalmente posso rilassarmi, abbronzarmi, dormire, nuotare, baciare lettera o testamento. Uffà, non posso stare qui senza far niente.
Accendo una sigaretta e do un’occhiata in giro. Dannazione, da qui non si vede nessun negozio. Eppure devono esserci,
“Moda Mare Positano” la conoscono tutti. Qualcosa comprerò. E mentre immagino il mio primo acquisto, mi sento avvolgere da uno strano senso di pace, di serenità: è il potere magico dello shopping, che va in funzione anche solo con il pensiero. Ora sì che posso rilassarmi, mi sdraio, metto gli auricolari, ma prima che possa spingere ‘play’ su ‘Whenever, Wherever’ di Shakira, arriva una ragazza che mi chiede: “vuoi massaggio?”
Rifiuto con gentilezza l’allettante proposta. La sosia di Lucy Liu tiene in mano un piccolo flacone giallo su cui è appiccicato un grande adesivo a forma di drago verde: dalla sua bocca esce una grande fiamma di fuoco. Solo uno stupido si farebbe fare un massaggio con un unguento simile. Forse ho sottovalutato il suo fascino. Al primo ‘Whenever Wherever’, mi accorgo che ‘lo stupido che si farebbe fare un massaggio con un unguento simile’ è mio marito. So cosa succederà: rimarrà bloccato per il resto della vacanza, e io dovrò rimanere in camera con lui, mente l’aria condizionata distruggerà lo sputo di abbronzatura guadagnato in questi venti minuti. E la colpa sarà tutta di Lucy Liu. A fine massaggio, Giaco lamenta un lieve dolore nella zona cervicale. Al suo posto, mi riterrei fortunato, poteva andare peggio.
“Andrai a farti una doccia, spero…”
“La signorina Hokuto ha detto che sarebbe meglio di no.” dice sghignazzando.
“E io dico che odori di canfora cinese.”
Abbasso la voce:
“Non so se mi spiego. E poi escludo che l’olio di drago abbia un fattore di protezione solare.”
“Sai che quasi quasi vado a farmi una doccia?”
“Spiritoso. Dovresti ringraziarmi…”
Continuo a seguirlo con lo sguardo: voglio essere sicura che passi sotto un getto d’acqua corrente. Lo vedo entrare nella doccia e finalmente posso abbassare la guardia. Cerco di rimettere gli auricolari, ma mentre faccio per tuffarmi in posizione orizzontale, mi accorgo di un tipo carino che mi guarda sorridendo. Mi rimetto seduta, e mi volto per controllare che dietro di me non ci sia Kate Moss, ma vedo solo una signora sulla settantina che assomiglia a Sandra Milo. È quasi certo: sta guardando me. Si alza dal lettino, scosta i capelli bagnati dal viso e si avvicina. Oddio che imbarazzo, sta venendo qui. Anche io devo ravvivarmi i capelli. Troppo tardi: è già di fronte a me.
“Ciao.” dice sfoggiando un sorriso super sexy. “Ti ho visto fumare, non avresti d’accendere?”
Non immaginavo che questa tattica fosse ancora in uso.
“Certo.”
Caccio la testa nella borsa per cercare l’accendino. Faccio leva sul fatto che finisce sempre in fondo, che non si trova mai, e prendo tempo per chiedermi se ci sta provando oppure no. Non c’è più ossigeno: esco allo sbaraglio. Allungo la mano per porgerglielo, lui tiene la sigaretta tra le labbra, la accende, ma prima che possa restituirmi l’accendino, Giaco torna dalla doccia.
“Grazie.” dice mentre se lo infila in tasca.
Si volta e se ne va.
“E quello chi era?” chiede Giaco che ha assistito alla scena.
“Sei geloso eh?”
“No, chiedevo…”
“Be’, è evidente che sei geloso, comunque non preoccuparti, era solo un fumatore senza accendino. E me lo ha pure rubato.”
Giaco si alza all’improvviso: sapevo che avrebbe difeso il mio onore.
“Vado a prendere un caffè, ne vuoi uno anche tu?”
Il mio sesto senso non vale una cicca.
“Sì, grazie.” rispondo delusa.
Dopo cinque minuti, mio marito non torna solo con il caffè, c’è pure il tipo dell’accendino. Cosa mi sono persa?
“Enri: ti presento Sergio.”
“Ci conosciamo…” dico arrossendo.
“Sì, le ho chiesto d’accendere poco fa.”
E te lo sei anche tenuto. Ci stringiamo la mano, mentre Giaco continua la presentazione:
“Sergio conosce bene Positano, viene qui da sempre.”
“Davvero?”
“Sì, da quando sono piccolo, i miei hanno una casa qui. Sono partiti proprio ieri, io resto ancora un paio di giorni, poi li raggiungerò a Roma.”
“Roma? Noi adoriamo Roma.” dico entusiasta.
“Tutti i turisti lo dicono, ma viverci è caotico, credimi.”
Turista lo dici a tua sorella. Io ci ho passato la mia luna di miele.
“Preferisco Positano, è la mia seconda casa.” conclude sorridendo.
Allora può indicarmi i negozi migliori, ma mentre sto per fare la domanda che mi cambierà la vita, Giaco mi anticipa:
“Che ristoranti ci consigli?”
Ecco: lui pensa sempre a mangiare.
“Ce ne sono tantissimi, il mio preferito è la Cambusa, fanno certi spaghetti!”
“Ci andiamo? Ti va?” chiede Giaco voltandosi verso di me.
“Certo… Vuoi venire anche tu?” dico quasi per circostanza.
“Se non disturbo, volentieri.”
“Facciamo alle nove?” suggerisco.
“Alle nove in paese.” conclude.
È ufficiale: Giaco mi odia. Ha passato il resto del pomeriggio a rimproverarmi perché ho invitato uno sconosciuto a cena. Ho precisato che gli sconosciuti sono quelli da cui non si accettano le caramelle, non quelli che conosci al mare. E poi era solo: senza genitori, senza amici, che altro dovevo fare? Per cercare il suo perdono, ho addirittura accolto la folle proposta di tornare in albergo facendo le scale. Scale: scalini, 257 per l’esattezza. A metà salita, valuto che sarebbe meno doloroso buttarsi di sotto: sugli scogli, piuttosto che proseguire con un infarto in corso. E pensare che sarei potuta passare dal paese, dare un occhiata a qualche negozio, e lui mi tiene pure il broncio. Facciamo la pace sotto la doccia, e tutto torna come prima. Mi infilo l’accappatoio e mi fiondo dritta verso l’armadio. Ho solo quarantacinque minuti per truccarmi, vestirmi, pettinarmi. Meglio cominciare dalla parte più complicata: la mise. Devo essere carina, ma non provocante.
Impossibile: questa era la ‘prima vacanza estiva marito e moglie’: ho portato solo degli abitini provocanti. Ma non sarà un posto aggiunto a tavola a mettermi ko. Potrei metterci sopra un maglione di Giaco, aggiungo una cintura in vita e un sandalo gioiello piano terra. Corro a truccarmi, mi asciugo i capelli e mi infilo i vestiti. La borsa? Oddio. Mi manca la borsa. Scelgo la più timida del gruppo: non c’è. Chiudo gli occhi e ne pesco una a caso: una clutch tempestata di pietre preziose a forma di stella. Giaco è bellissimo: ha una camicia bianca dal taglio classico, un paio di pantaloni blu e una mocassino di pelle. Mi scoccia ammetterlo ma è anche più abbronzato di me. Saranno stati i residui di olio di drago. Esco fiera dalla camera d’albergo tenendo Giaco per mano. Non so cosa aspettarmi stasera, speriamo almeno che gli spaghetti siano buoni.

Illustrazione: Valeria Terranova