“Calmatevi.” ordino. “I posti sono in piedi, lontani dal palco, ci saranno ragazzini scatenati, disposti a calpestarvi pur di raggiungere Justin e voi dovrete sopravvivere.”
Le bimbe hanno gli occhi sbarrati e la bocca spalancata. Forse ho esagerato, le mie parole devono aver trasmesso un leggero stato d’ansia, ma non voglio creare false aspettative.
“Mi avete capito? Dovremo stare unite e…”
“Mamma, stiamo solo andando a un concerto.” mi interrompe Emma.
Vorrei ribattere dicendo: ‘e tu che ne sai?’ ma preferisco abbandonare l’argomento e preparare la cena. Giaco rientra dal lavoro una mezz’ora più tardi, mi raggiunge in cucina, mi dà un bacio, ma ha la faccia di chi ha qualcosa da farsi perdonare.
“Cosa mi devi dire?” chiedo levandomi il grembiule.
“Mi dispiace, ma sabato non posso venire con voi.”
“Mi ci mandi da sola?” chiedo disperata, mentre il grembiule mi scivola dalle mani.
“No, ci sono sempre Gughi e la Michi.”
In effetti, mi consola sapere di non essere l’unica adulta ad accompagnare una squadra di bambini urlanti, ma deve avere una buona ragione per piantarmi in asso.
“E perché non vieni?”
“Sabato c’è Gigi D’Agostino, io e Morra dobbiamo restare allo Yago.”
Suggerisco alle bimbe uno switch Justin Bieber-Gigi Dag, ma non viene accettato: mi rassegno al mio destino. Decido di abbandonare i miei pregiudizi sui concerti, imponendomi di dare un’altra chance a quel luogo affollato e pericoloso, e se devo scegliere una mise, deve essere assolutamente adeguata. Raggiungo la sezione ‘young’ del mio guardaroba, quella che racchiude alcuni pezzi anni ‘90 che potrebbero prestarsi per l’occasione, ed esco un secondo più tardi: è troppo anche per me. Alla fine, dopo mille prove, entrano a far parte del ‘look concerto’: camicia di jeans, leggings neri, varsity jacket lunga, anfibi e zainetto di pelle. Yeah. Le bimbe mi fanno un applauso.
“Mamma, sembri giovane!” esclamano all’unisono.
Il mio sorriso si sfracella al suolo, nello stesso istante in cui suonano alla porta. Mi ricompongo e usciamo: gli altri ci aspettano in macchina. Gughi è vicino all’autista; dietro, sui sedili posteriori, la Michi e i loro figli: Filippo e Sara, noi saliamo in coda. Abbiamo deciso di farci accompagnare per evitare il problema del parcheggio, per scendere nel punto più vicino, per avere una macchina pronta a partire, una volta usciti, e anche se sono io ad averlo suggerito, è stato Gughi a organizzare il trasporto: meriterebbe un applauso. Guardo fuori dal finestrino, le previsioni meteo erano esatte: piove, fa freddo e una nebbia leggera completa il quadretto di una tipica giornata di novembre. Durante il tragitto, le bimbe mettono a confronto i loro striscioni di cartoncino bristol: il risultato di giorni spesi a ritagliare le sagome del loro idolo, per poi incollarle, aggiungendo scritte, cuori e stelline negli spazi vuoti. Filippo, invece, mi chiede consigli su un paio di scarpe da comprare. Lui sì che mi fa sentire giovane: a quattro anni, ha chiesto a suo padre se ero una delle Winx. Lo amo da allora. Dopo quaranta minuti, arriviamo davanti al palazzetto: è il caos più totale. Vedo un gruppo di ragazze che si abbracciano, cantando ‘What do you mean?’, una bambina che implora il padre di farsi comprare la fascia di Justin e in lontananza, il signore della piadina che grida che la ‘salsiccia e cipolla’ è pronta: tira già una brutta aria. Dopo aver fatto un po’ di fila, entriamo, cercando di avvicinarci il più possibile al palco, ma ci sono persone che hanno dormito qui per accaparrarsi i posti migliori e li difenderanno a costo della vita. I ragazzi si rassegnano, noi pure, acquietandoci nella zona vicino al bar, consolati dal maxi schermo: il solo strumento che ci consentirà di vedere Justin esibirsi. Il concerto inizia, il palco si illumina, il pubblico si accende, le bimbe urlano a squarciagola: ‘sei bellissimo’, ‘ti amo’, ‘voglio sposarti’. Io, invece, frenata da un senso di decoro, mi limito ad apprezzamenti che si addicono più alla mia età — visto che potrei essere sua madre — una cosa tipo: “Bella la sua felpa di Champion, vero Fillo?”
E mentre ci mettiamo a cercarla sul sito, sperando di vederla finire nel nostro carrello virtuale, mi accorgo che Carola ha un’espressione triste.
“Cosa c’è amore?” le chiedo abbassandomi verso di lei.
“Vedi Gughi cosa sta facendo?”
Sollevo lo sguardo e mi accorgo che Sara sta proprio sulle spalle del suo papà. Ecco, lo sapevo: quando c’è bisogno di Giaco, lui non c’è mai. E adesso? I miei occhi tornano su Carola, cerco di fare una valutazione di proporzioni, di peso, di capacità: quante probabilità ci sono di vederla seduta sulle mie spalle? Fino a che non ci provo, non lo saprò mai. E così, mossa dal desidero di accontentarla, dalla voglia di compiere un’impresa quasi impossibile e da un pizzico di orgoglio femminile che mi fa dire: ‘se ci riesce Gughi, ci riesco anch’io, decido di tentare. Mi chino e chiedo a Carola di divaricare le gambe.
“Mamma, sei sicura?”
“Certo che sono sicura…” dico sorridendo, consapevole di mentire.
Devo solo concentrarmi su alcune e semplici regole del crossfit. Faccio passare la testa tra le gambe di Carola, afferro i polpacci e la carico sulle spalle — mimando uno stacco da terra in posizione sumo — poi, piano piano, salgo — con un back squat — fingendo che mia figlia sia un bilanciere da trenta chili. Carola è in alto, alza le braccia ed esulta: “Mamma, lo vedo! Mamma è bellissimo!”
Sento la sua emozione, la sua felicità e un dolore lancinante nella zona dell’inguine, ma a quello penserò più tardi, ora voglio godermi il momento.
Alla fine del concerto, accompagnata dall’ernia, uscita a causa del mio gesto eroico, mi consolo pregustando la scena in cui la macchina arriverà per riportarci a casa, quella in cui sarò seduta al calduccio, abbracciando le mie figlie felici e contente, e anche quella di domani, in cui mi farò visitare da uno specialista, ma dopo quaranta minuti di attesa, la macchina deve ancora arrivare.
“Gughi: che fine ha fatto Mario?” chiedo, mentre cerco di tamponare con nonchalance il poderoso strato di umidità che si è depositato sui capelli, trasformandoli in un cespuglio.
“Dovrebbe essere qui a minuti.”
“Lo hai detto anche mezz’ora fa.” puntualizza la Michi infastidita.
Anche i ragazzi cominciano a dare segni di cedimento: “Mamma ho freddo. Ho fame. Ho la pipì. Ho sonno. Sto gelando. Dove diavolo è Mario?”
Gughi lo richiama e lui non risponde. I nostri volti sgomenti lo fanno sentire in colpa: prenotare un altro taxi sembra l’unica opzione possibile. Ma dopo altri dieci minuti, non solo un altro taxi non si trova, Mario ha bellamente confessato di essere fuori a cena a mangiare le tigelle e non tornerà a prenderci. Era meglio chiamare Topo Gigio: sarebbe stato più affidabile. Siamo arrabbiati, infreddoliti e abbandonati a noi stessi. E mentre immagino di far esplodere la sua macchina, alla prima occasione che mi si presenterà, mi maledico per aver pensato di complimentarmi con Gughi per aver organizzato il trasporto. Domani penserò alla mia vendetta, ora, suggerisco di spostarci in una zona meno trafficata per offrire una posizione migliore, confidando sul fatto che qualcuno, prima o poi, risponderà. È quasi l’una e nessuno di noi si capacita della situazione in cui ci siamo cacciati, ma dopo aver attraversato la città, riusciamo a trovare rifugio in una lavanderia a gettoni, ancora aperta. A quell’ora di notte, assume le sembianze di una suite del Mandarin Oriental: piacevole, calda, accogliente. Le poltrone sono rigide, eppure, sembrano la cosa più comoda di sempre. I bimbi sono seduti sulla stessa fila di sedie appesa alla parete, stanno morendo di sonno e usano la spalla del vicino come cuscino su cui appoggiarsi, stanno per crollare, quando Gughi, che uscito per telefonare, rientra concitato per dirci che Cucciolo74 ha risposto alla chiamata. Lo guardiamo increduli.
“Dimmi che è vero… dimmi solo questo.” chiede la Michi esausta.
“Davvero: dice che sarà qui tra ventotto minuti.”
“Giuralo Gughi.” mormora Filippo.
“Lo giuro su Justin!”
Nessuno gli crede. E invece, con tre minuti di anticipo, Cucciolo 74 si ferma davanti alla lavanderia: ai nostri occhi è l’equivalente di Padre Pio. Ci fiondiamo in macchina, già immaginando i letti che ci aspettano.
Sulla strada di casa, mentre tutti dormono, mi ritrovo di fronte al solito finestrino: un piccolo esercito di stelle sembra concedermi il privilegio di farmi compagnia, offrendosi di illuminare questo cielo scuro per creare atmosfera. E contro ogni aspettativa, ci riesce: se ripenso a stasera, mi viene da ridere. Ciò che fino a poco fa avrei definito tragico, ora mi sembra magico.
Anche io mi sento tra palco e realtà: immagino la vita di tutti giorni come un film, per il puro piacere di raccontarla, ma d’ altronde, vivo di storie.