ra una notte buia e tempestosa, come quella che descrive Snoopy all’inizio dei suoi romanzi, e sono passati dieci anni da allora. Le bimbe dormivano beate nei loro lettini, Giaco stava facendo tremare il nostro con il suo russare e il solo che mi tenesse compagnia, durante quella insolita insonnia, era Tobia, il mio cane. Il lampo che aveva colpito casa nostra, però, non era la solita scarica elettrica accompagnata dal tuono, era un’idea, un’intuizione improvvisa che non riuscivo a ignorare. Ci avevo pensato durante la seconda gravidanza e anche nell’ultimo periodo, sempre più spesso, e quella notte, non riuscivo a dormire perché sentivo la necessità di scrivere. Un manuale con regole chiare e semplici. Avevo già il titolo in mente: “Tutto quello che le mamme dovrebbero sapere su ciò che la gente dice, ma non dovrebbe dire.”
Quanti commenti fuori luogo mi era toccato sentire? Quanti avevano ferito la mia sensibilità? A quante mamme avrei potuto evitare tutto questo? Volevo scrivere qualcosa di pratico che insegnasse loro come affrontare il retrogusto amaro della dolce attesa. E sapevo di poterci riuscire. Tobia morì sei anni dopo. Pensai che la vita è così, a volte prende senza rendere, altre, invece, restituisce ciò che ha tolto, in forma diversa. Decisi di fare una promessa a quel bambino a quattro zampe che avevo perduto e l’avrei onorata, facendo quello che desideravo da tempo: scrivere un libro e portarlo a un editore, a dimostrazione che la grinta acquisita, a scapito di una grande perdita, è il più grande dei doni, se riesci a indirizzarla dove desideri. La passione per la scrittura che avevo sempre avuto, sin da bambina, era tornata a cercarmi. Non l’avevo ignorata di proposito, gli impegni familiari e lavorativi erano tanti, il tempo era sempre meno e me ne sarebbe servito di più per concludere quel manuale iniziato quella notte, ma potevo mettere insieme gli articoli più belli, scritti per il blog in quegli anni, e farne una raccolta. Lo feci e Valeria, il mio braccio destro, cominciò a mandarne un estratto a tutte le case editrici. La prima che rispose rimase entusiasta e volle conoscermi. I miei articoli, anche se imprecisi e talvolta caotici, erano riusciti a delineare il mio profilo, la mia personalità: altro non ero che una scrittrice intrappolata in un fashion blog, ma il referente con cui stavo parlando, aveva bisogno di qualcosa di diverso e mi chiese se avessi scritto dell’altro in quegli anni: gli dissi del manuale. Era solo un embrione, ma l’idea lo conquistò: mi chiese di concluderlo per pubblicarlo. Ci lavorai giorno e notte e una volta finito, glielo consegnai. Il contratto arrivò qualche mese più tardi, era il sogno della mia vita e lo firmai. Ma dopo poche settimane, l’editore si tirò indietro. Disse che non era più sicuro del mio testo, che qualcosa non lo convinceva, che la mia il personalità usciva di rado, che non voleva bruciarmi. Il mio castello si era appena sbriciolato e le sue macerie mi avevano letteralmente sepolto. Mi arrabbiai, piansi, ma non mi arresi. Trovai un maestro di scrittura — che in modo giocoso chiamavo Shifu — che potesse aiutarmi a tirar fuori quella parte di me che faticava a uscire e che pareva indispensabile, e ci riuscì. Aveva uno stile completamente diverso dal mio: più pacato, più malinconico, più truce, ma era riuscito a insegnarmi i trucchi del mestiere senza snaturare il mio. Lavorammo per diversi mesi su quello stesso manuale che avevano rifiutato. Decidemmo di riscriverlo in modo diverso: con una parte romanzata e una parte manualistica, ma anche quella versione, di cui eravamo soddisfatti, non venne presa in considerazione. Piansi di nuovo, ma di nuovo non mi arresi. Fu lui a consigliarmi di chiedere un altro parere e di proporlo al suo agente letterario. Glielo mandai e aspettai due mesi perché lo leggesse e una mattina di settembre mi chiamò al telefono.
“Mi piace la tua penna, il tuo libro ha solo un problema: così com’è non si vende. Devi scrivere un romanzo, questo sai fare e questo devi fare.”
Io e il mio maestro ripartimmo da capo, scrissi il mio primo romanzo e lo consegnai quattro mesi più tardi. L’agente fu entusiasta. Preparai un estratto, una mia biografia e il libro fu mandato a tante case editrici che risposero, rifiutandolo. Ogni lettera di rifiuto era accompagnata da un pianto: la reazione emotiva di chi non si capacita del perché: erano recensioni positive, spesso entusiastiche, ma che finivano tutte con un ‘però’. L’agente letterario era deluso quanto me, mi chiese di scrivere un secondo romanzo per fare un nuovo tentativo, ma cosa ne sarebbe stato del primo? Sapevo che la mia prima produzione era buona, dovevo solo insistere. Sciolsi il contratto e andai avanti, senza di lui. Valeria, l’amica e la collaboratrice fedele, che in questi anni aveva continuato ad appoggiarmi, un giorno si arrabbiò.
“Perché non usi la tua pagina di Facebook in modo costruttivo? Come puoi farti conoscere per ciò che scrivi, se non lo condividi?”
Sapevo che aveva ragione, ma non sapevo come accontentarla. Trovai il modo e cominciai. Le lettrici arrivarono, diventarono sempre più numerose, sempre più affettuose, erano le sole che riuscissero a farmi gioire del mio lavoro, le sole per cui valesse la pena continuare a scrivere. Mi avevano restituito il sorriso che tutti quei pianti avevano cancellato. Erano la dimostrazione costante di un sostegno concreto che mai avrei immaginato di meritare. Solo loro riuscivano a farmi sentire la scrittrice che ho sempre desiderato essere, anche senza libro in libreria. Mi invitavano ad insistere, a non mollare, e avrei fatto di tutto per non deluderle. E oggi, amiche mie — e amici miei, perché Max è uno dei miei lettori preferiti — sono qui per dirvi, che grazie a voi e al vostro cuore, il mio sogno si è avverato. Mercoledì ho firmato un contratto con il gruppo Mondadori per il mio primo romanzo, che uscirà l’anno prossimo. Non so trovare le parole per descrivere la mia felicità, ma un grazie, che viene dal più profondo del mio cuore, è solo per voi. Vi voglio bene.
Illustrazione: Valeria Terranova