o diciotto anni quando mi viene la brillante idea di diventare la sindacalista di me stessa, di criticare la paghetta dei miei, e di chiedere l’aumento.
“I più grandi doni che puoi dare ai tuoi figli sono le radici della responsabilità e le ali dell’indipendenza.” Mio padre mi semplifica il pensiero con parole sue:
“Enrica, se quello che ti diamo io e tua madre pensi che sia poco, allora cercati un lavoro.”
“Ma io studio.”
Quella è una frase che non devi dire mai – altro che boomerang e carte di credito. Quella ti scatena un casino che neanche t’immagini. Mio padre attacca:
“Io lavoro quindici ore al giorno, la mamma otto e le altre sette le fa a casa pulendo, cucinando, lavando e stirando. E tu? Datti da fare!”
Se penso che tra vent’anni gli darò ragione, mi viene la pelle d’oca. E va bene. Ti farò vedere io di cosa sono capace.
Anche la mia amica Alessandra vuole cercarsi un lavoro, e visto che sono per la libera concorrenza, le chiedo di andare insieme. La mia città è piena di negozi, sono pronta a specializzarmi in qualsiasi cosa pur di diventare indipendente. Voglio la libertà: un po’ come William Wallace. Qui non si tratta solo di un lavoro, qui si tratta di dimostrare alla mia famiglia che posso cavarmela da sola, e non posso tornare a mani vuote. Negozi di abbigliamento, articoli sportivi, elettrodomestici, calzature, generali alimentari. Ci presentiamo in modo cordiale, ci rendiamo disponibili per tutti i weekend, riusciamo anche a mentire discretamente quando dichiariamo di avere esperienza, eppure non ci vuole nessuno. Torniamo al punto di partenza, ma dal lato opposto della strada, ed entriamo nell’ultimo negozio del viale: una pasticceria. La pasticceria Stefano, meglio conosciuta come il Bar delle vergini. Specialità: cannoli alla crema, Dolce Amore, torta di riso. Alessandra entra per prima, io sono dietro di lei, un signore dal viso simpatico con un paio di baffi e un elegante papillon si dirige verso di noi.
“Buonasera, ditemi.”
“Io cerco un lavoro.” dice Alessandra.
La guardo con un grosso punto interrogativo che segue la mia lecita domanda: ma non eravamo in due? Faccio finta di niente e la lascio parlare.
“Ha bisogno di una barista nel weekend?”
Una? E io?
“Sì, potrei aver bisogno. Noi facciamo anche le colazioni dopo la discoteca il venerdì e il sabato. Ma apriamo alle quattro: saresti disponibile?”
“Sì certo.”
“E tutta la domenica?”
“Senza problemi.”
Mi ha fatto fuori, penso, mentre mi mangio con gli occhi quel bignè alla nocciola con la glassa bianca. L’acquolina mi fa andare in apnea, deglutisco e cerco di riprendere il controllo della situazione.
“Anche io cerco un lavoro.” dico avvicinandomi ad Alessandra con la faccia di chi non ha niente da perdere. Allungo il braccio destro sul banco, faccio un passo avanti con il piede sinistro e tengo il destro in tensione per rendere tutto più armonico: una posa da combattimento alla Karate Kid.
“Mi chiamo Enrica e ho fatto la barista per tutta l’estate. Faccio i cappuccini più buoni del mondo, ma ho un fidanzato.”
“E quindi?” mi chiede il signore.
“Quindi, siccome vado a scuola, non posso venire alle quattro di mattina, ma potrei dalle sette, e qualche – ho detto qualche – sabato pomeriggio. Anche la domenica mattina, ma non il pomeriggio, dovrò pur vedere Giaco ogni tanto.”
“Chi?”
“Giaco: il mio fidanzato.” rispondo sorridendo.
“Ho capito: datemi i vostri numeri di telefono, ne parlo con il mio socio e vi faccio sapere.”
Lo ringraziamo e usciamo.
“Certo che sei brava a sgomitare…” dico in tono acceso.
“Ho solo pensato fosse meglio presentarsi singolarmente, visto i precedenti.”
Non posso darle torto, mi sfugge solo secondo quale criterio abbia deciso che la precedenza toccava a lei.
“Già. Peccato che mi aspettassi una cosa tipo ‘tutti per uno, uno per tutti’, ma mi sbagliavo.”
“Senti: Potevi venderti meglio. Con la presentazione che hai fatto, non ti chiamerebbe comunque, e non è colpa mia.”
È stata chiara, forse ho fallito, ma ci sarà pur rimasto qualcuno su questa terra che apprezza la spontaneità.
Due giorno dopo, suona il telefono.
“Pronto.”
“Enrica?”
Sì…”
“Sono Giuliano della pasticceria Stefano, ti ho chiamato per chiederti se ti va di cominciare sabato.”
Si è sbagliato. Ha confuso i nomi o ha invertito i numeri di telefono. Ma io ho bisogno di questo lavoro e non mi sembra questo il momento di chiedere spiegazioni.
“Volentieri. A che ora si comincia?”
“Alle otto.”
Riattacco il telefono e nonostante sia felice di aver ottenuto quel lavoro, dirlo ad Alessandra non sarà facile. Lei ha fatto un colloquio perfetto e io sono stata un disastro: è matematico che si sia sbagliato. Incontro Alessandra dopo un paio d’ore, nel solito bar in cui ci vediamo sempre. Glielo dico e basta, penso mentre mi siedo al tavolino sotto l’ombrellone.
“Mi ha chiamato la pasticceria.”
“Quindi?”
“Mi hanno presa.” dico esaltandomi solo a metà.
“Ti hanno presa?”
La sua espressione stupita e sorridente ci ripensa: realizza che la sua amica è stata scelta al suo posto e si irrigidisce sforzandosi di mostrare almeno un briciolo di gioia, ma non ci riesce.
“È impossibile!”
“Cosa?”
“Enri lo sai anche tu: si è sbagliato.”
E se invece ci fosse ancora qualcuno che apprezza la spontaneità? Cosa ne sa?
“E invece no!” ribatto.
“Sei stata un disastro, non può aver scelto te.
Deve aver confuso i nomi o invertito i numeri di telefono.”
“Come puoi dire una cosa del genere?”
dico cercando di ignorare di aver pensato la stessa cosa due ore prima.
“Allora chiediglielo!”
“Non se ne parla.”
Due anni dopo, lavoro ancora in quella pasticceria, Alessandra si è messa il cuore in pace, ma io non ho ancora trovato il coraggio di chiedere a Giuliano se mi abbia scelto per sbaglio. È sabato pomeriggio e sono quasi le otto, stiamo per chiudere. Siamo soli e questo è il momento giusto.
“Giulio…”
“Sì…”
“Quando io e la mia amica siamo venute a chiederle un lavoro e poi lei ha chiamato me, era sicuro di volere proprio me?”
“Certo. Perché?”
“Perché mi ero venduta malissimo, la mia amica invece era stata perfetta.”
“Sì è vero, ma avevo capito subito che eri quella più sveglia.” dice abbassando la serranda a metà. “E ora forza, chiudiamo e andiamo a casa.” conclude. Io sorrido soddisfatta e mi rimetto a pulire. Ho lavorato con lui per dieci anni, mi ha insegnato un mestiere ed è una delle persone che amo di più. Non è solo il signore dal viso simpatico con un paio di baffi e un papillon elegante, è un’istituzione della mia città, è l’uomo che mi ha regalato l’indipendenza.
Illustrazione: Valeria Terranova