iaco smise di giocare a calcetto per sempre. Da allora, non ha più toccato un pallone — solo palline da tennis. Minacciai di andarmene, di lasciarlo solo con gli zombi e lui mi supplicò di restare. Lo perdonai, in cambio di un po’ di shopping alla boutique del villaggio, ma l’esperienza si rivelò anche più deludente del sesso mancato del pomeriggio. Era chiaro che la vacanza non fosse iniziata nel migliore dei modi e decidemmo di ricominciare da capo, dal giorno seguente. Al sorgere del sole, la luce si infilò tra le persiane e mi svegliai. L’occhio sinistro giaceva sul cuscino senza riuscire a muoversi, ma il destro, spalancato e abbagliato dai raggi del sole, vide le cose sotto una nuova luce. La stanchezza accumulata si era inevitabilmente abbattuta sul mio stato d’animo, ma dopo una bella dormita, abbandonai la folle idea di andarmene e mi sentii felice. Svegliai Giaco con un bacio, ci vestimmo e scendemmo a fare colazione. Lo sbalzo termico tra l’interno e l’esterno della struttura era l’equivalente della sauna norvegese al contrario. Con quel caldo infernale, una giornata al mare mi sembrava un’impresa da eroi, ma avevo appena sentito da una signora, seduta vicino al mio tavolo, che sulla spiaggia, un ragazzo vendeva collane bellissime: questa era una ragione per cui voleva la pena tentare, e il mio colorito pastello, tra il verde e l’azzurro, mi convinse che un po’ di abbronzatura avrebbe giovato al mio aspetto. Dopo un’ora, mi pentii di averlo anche solo pensato: mi ero già ustionata braccia, gambe e faccia. Mi alzai di colpo e mi sentii mancare. Forse, fu uno sbalzo di pressione, ma mi parve di avere un miraggio: vidi una sagoma all’orizzonte, sfuocata e tremante, che più si avvicinava, più diventava nitida. Scesi dal lettino con l’intenzione di avvicinarmi a quella strano oggetto non identificato, ma la sabbia rovente mi bruciò i piedi. In quel momento, capii che non stavo sognando: il ragazzo delle collane era davanti a me. I piedi cercarono invano una zona d’ombra, ritornai sul lettino zoppicando, camuffando la smorfia di dolore che mi riempiva il viso e la trasformai in un sorriso di benvenuto. Diventammo amici e comprai tutto quello che aveva. Da quel momento in poi, decisi di esagerare, di divertirmi, di mangiare tutto quello che mi sarebbe passato davanti. Una volta tornata a casa, avrei rimpianto la vita da vacanza: i fritti misti, le torte ipercaloriche, il dolce far niente. Mi affezionai alla piacevole routine con la sveglia alle undici di mattina. Le dormite pomeridiane sotto l’ombrellone — indispensabili per smaltire il pranzo a base di parmigiana di melanzane — l’abbronzatura da gamberone, le feste in riva al mare e gli spettacoli di animazione. Anche gli zombi diventarono nostri amici. A fine vacanza, ripensai ai momenti trascorsi in quel luogo, da cui all’inizio avrei desiderato fuggire e che ora non volevo più lasciare, e mi sentii triste. Preparai le valigie e andai a dormire con Giaco, con la mia malinconia e con una sveglia puntata alle sette: la mattina seguente avremmo detto addio al villaggio. A svegliarci di soprassalto fu la luce abbagliante che entrava dalla finestra: erano le undici, nessuno dei due aveva sentito la sveglia e il pulmino era partito senza di noi. Ci vestimmo in fretta e carichi di ansia e di trolley, raggiungemmo la hall per trovare una soluzione.
“Deve esserci stato un errore, ma sembra impossibile: lo staff fa sempre l’appello, prima della trasferta per l’aeroporto.” disse una delle signorine Blu Club.
Avrei voluto puntualizzare l’ovvio con la mia pungente ironia, uscirmene con un’affermazione del tipo: “l’errore c’è stato per forza o non saremmo qui a parlarne.’ Ma preferii tacere e passai la palla a Giaco. — A quel punto, ero disposta a fare un’eccezione. Lo vidi guardare il suo orologio, mentre rifletteva sui tempi, poi disse:
“Può chiamarci un taxi?”
La signorina Blu Club impallidì. Sparì sul retro della reception, la osservammo mentre chiedeva consiglio a un collega, mi sembrava che anche lei, come me, preferisse che fosse un uomo ad occuparsi della faccenda, non mi sbagliai: il collega ci raggiunse.
“Buongiorno, purtroppo non abbiamo taxi ‘ufficiali’.” disse con un po’ di imbarazzo. “Ma ci sarebbe una persona di fiducia che potrebbe accompagnarvi…”
Non potemmo fare altro che accettare, se non fossimo partiti immediatamente, avremmo perso il volo e non potevamo permettercelo. Quando vedemmo arrivare la macchina: una Ford Escort rossa con l’alettone, capimmo che la ‘persona di fiducia’ altro non era che un autista abusivo. Pensai che, anche in quel momento, puntualizzare l’ovvio non sarebbe servito a nulla, caricò i bagagli e ci fece salire: io sui sedili posteriori, Giaco nel posto del passeggero, giusto per non destare sospetti. Eravamo ammutoliti di fronte a quella situazione che sembrava incredibile, nessuno dei due aveva voglia di iniziare una conversazione, ma fu l’autista a farci una domanda. Gli chiedemmo di ripetere, una, due, tre, quattro volte: non riuscivamo a capire. Mio padre era siciliano e nonostante avesse perso completamente l’accento, in occasioni speciali, usava ancora il suo dialetto, deliziandoci con qualche frase fatta che ci faceva divertire, ma non era lo stesso linguaggio del signore che stava alla guida. Sbuffò, tentando di trattenere la frustrazione causata dalla nostra incomprensione, e riformulò la domanda con un perfetto italiano:
“Avete perso il pullman?”
“Sì!” rispondemmo all’unisono.
Eravamo felici di averlo capito e felici di avere qualcuno a cui raccontare la nostra disavventura. Chiacchierammo per tutto il viaggio e riuscimmo a raggiungere l’aeroporto giusto in tempo per non perdere il volo, e una volta giunta al check-in, ebbi la mia occasione di puntualizzare l’ovvio, arrabbiandomi con l’addetto all’appello che ci aveva dimenticato. Ci imbarcammo e tornammo a casa. Giurammo a noi stessi che non avremmo più messo piede su un aereo, ma eravamo consapevoli di mentire a noi stessi. Presto sarebbero arrivati altri voli, altre avventure e la vacanza appena finita, che era iniziata nel modo peggiore, si era risolta nel migliore dei modi. Sapevamo anche che non l’avremmo mai dimenticata e che l’avremmo catalogata con il nome: Noto Marina 1999: l’estate in cui abbiamo rischiato di perdere l’aereo.
Illustrazione: Valeria Terranova