o prenotato i biglietti del treno, questa volta è Giaco che mi accompagna a Napoli, ma c’è solo una cosa che non ho ancora capito: come ci si veste per andare a presentare un libro che ha la faccia di un manuale per mamme, in una scuola di teenagers? Jeans, felpa e scarpe da ginnastica mi toglierebbero vent’anni?
Non credo, non avrebbero inventato il botox, e a ogni modo, non mi serve un elisir di eterna giovinezza, ma qualcosa che faccia emergere il mio spirito giovanile. Che ci vuole?
Ci vuole Robbi, che oltre a essere il mio personal trainer, è anche regista, costumista e stylist presso se stesso.
“Allora Enri: jeans, felpa e sneakers non vanno bene…”
“Neanche i jeans?”
“I jeans sì, ma con un tacco.”
“Volevo stare comoda…”
“Non dico mica un tacco dodici, ma un mezzo tacco ci sta: fa un po’ donna in carriera.”
Massi’, un po’ Melanie Griffith ci sta.
Voglio fidarmi. Faccio mente locale sulle scarpe che possiedo, ma un po’ perché sono tante e un po’ perché le mezze misure non mi appartengono, l’unica papabile che mi sovviene è uno stivaletto nero in pelle, tra l’altro comodissimo.
“Ce l’ho. Poi?”
E dopo aver vagliato ventisette combinazioni differenti — tenendo fisso per tutte il mezzo tacco da donna in carriera — la conclusiva prevede: un paio di jeans bianchi, un maglione nero, un maxi cardigan bicolore e uno zainetto.
La professoressa Manno, la fantastica donna che mi ha invitato al liceo Calamandrei e che ogni estate accompagna i suoi ragazzi alla rassegna letteraria di Positano, l’ho conosciuta ieri sera. Ci ha portato a mangiare la pizza più buona del mondo e ci ha presentato Antonio, il suo compagno: un insegnante di ginnastica simpaticissimo che mi ha confessato di aver avuto un passato scolastico turbolento almeno quanto il mio.
Sono stati entrambi incoraggianti riguardo alla giornata di oggi e seppure apprezzi il loro ottimismo, questa volta ho deciso di leggere una delle mie storie di ordinaria follia, quella della Vespa, giusto per impappinarmi un po’ meno del solito. E poi ho anche la benedizione della prof.
Quindi via, si parte, dobbiamo essere a scuola per le undici.
Io e Giaco — in modalità teenager — entriamo al liceo tenendoci per mano, ma dalla cattedra che sta al centro dell’atrio, si alza una ragazzina chiedendoci se siamo qui per iscrivere nostro figlio.
Sono l’emoji con la goccia di sudore che sorride con sgomento.
Non mi ha riconosciuta: era prevedibile, non sono mica Melanie Griffith.
Mi presento e dico perché sono qui, una professoressa che mi ascolta in lontananza si avvicina e si offre di accompagnarmi nell’aula in cui mi stanno aspettando. Giaco, che ha definitivamente abbondato l’idea di prendermi per mano, mi segue a ruota con occhi incoraggianti.
Nell’aula ci sono due fazioni: a sinistra i ragazzi — sono più le ragazze in verità — che hanno letto il mio romanzo.
A destra, i ragazzi che hanno letto il romanzo dell’autrice che è stata invitata insieme a me. C’è anche TeleCapri
La scaletta prevede che un ragazzo per squadra faccia una prima presentazione del libro, poi la parola passerà alle scrittrici, che faranno un po’ di show per argomentare quale forza mistica fomenti il loro desiderio di dedicare l’intera vita alla scrittura, e risponderanno a qualche domanda. Posso farcela: coraggio.
A rompere il ghiaccio è Fabiola, una ragazza della mia fazione a cui il libro è piaciuto molto e ha scritto un piccolo discorso. Vorrei commuovermi, ma sono una professionista, mi commuoverò più tardi, quando ci ripenserò.
Poi è la volta di un’altra ragazza che presenta il secondo romanzo e adesso a chi tocca?
Qualcuno cerca di passarmi il microfono, ma io lo scanso come un taser.
Se stessimo giocando a scarabeo, ora toccherebbe a me, ma non mi vengono le parole, perciò bella, ce la giochiamo a sorte. “Pari o dispari?” chiedo all’autrice.
Lei continua a passarmi il microfono, io insisto per offrirle il mio turno, lei accetta: io tiro un sospiro di sollievo.
La ascolto: sentirla parlare è un piacere, non mette troppe pause tra i discorsi, ha un tono professionale e soprattutto non saltella e non gesticola. In pratica fa tutto quello che io non riesco a fare.
Racconta come è nato il desiderio di concepire l’idea di una storia di cui vorrebbe scrivere il seguito. Racconta i suoi successi, i retroscena del suo romanzo, risponde alle domande e adesso tocca a me.
Per la prima volta, la voce di Gallucci del TG5 che dice: “andiamo a braccio!” riecheggia nelle mie orecchie come quella di Zeus.
E A braccio sia! Niente Vespa.
Mi alzo, afferro il microfono e dico:
“Ho scritto il mio romanzo con l’ambizione di poter aiutare le persone — di tutte le età — a vivere con soddisfazione e passione, con il desiderio di spronarle a essere soddisfatte di loro stesse, suggerendo loro di sfruttare la bellezza in senso globale, sfatando il mito che quella interiore e quella esteriore siano due concetti distinti, ma complementari: le facce della stessa medaglia, entrambe necessarie a costruire l’autostima.”
La voce tremula con cui avevo cominciato si è distesa, potrei quasi dire che mi sento a mio agio. E continuo: “Non esistono le mezze misure, non ci si può far bastare di averne solo un po’, per essere felici ci vuole tanta autostima.
Per quanto mi riguarda, ci sono giorni in cui mi sembra di averne e altri in cui non riesco a trovarne da nessuna parte. E quando si nasconde, anch’io ho voglia di nascondermi.
Se leggo qualche recensione cattiva, qualche commento al vetriolo, non sempre so come reagire, forse succede anche a voi?”
I ragazzi annuiscono.
“Nel mio libro cito tanti film, chi lo ha letto sa che mi piacciono, e anche Vivian — Julia Roberts in Pretty Woman — a un certo punto della storia dice: ‘è più facile credere alle cattiverie, ci hai mai fatto caso?’ Questo per dirvi che non si può piacere a tutti, non siamo cioccolata, ma le parole fanno male e quando ci pungono sul vivo rischiano di fare ammalare l’anima.”
Alcuni ragazzi annuiscono anche ora.
Mi dispiace ritrovare su qualcuno dei loro volti le mie stesse insicurezze. So che stanno soffrendo.
“Ma esiste una cura.” riprendo fiduciosa. “Una cura per alzare le difese immunitarie emotive: cercate la vostra specialità, c’è sicuramente qualcosa che vi fa sentire speciali e dovete trovarlo, non arrendetevi fino a che non ci sarete riusciti: è il segreto per essere felici.”
I ragazzi mi guardano, sorridono, mi fanno sentire orgogliosa. E siccome non avrò la loro attenzione per sempre, sarà meglio concludere.
“Ho scritto il mio libro perché volevo chiarire il concetto — visto che usiamo gli hashtag — del #volemosebene: avere cura del proprio aspetto è una forma di rispetto nei confronti di noi stessi e anche nei confronti di chi ci sta intorno, ma non assecondate mai chi pretende da voi il meglio e basta, siate il meglio per voi stessi, non importa cosa vogliano gli altri.
Credete nei vostri sogni, niente è impossibile. Non lasciatevi convincere da chi pensa il contrario.”
Scatta l’applauso: sono emozionata.
Anche Giaco ha smesso di filmare per battermi le mani. Credo fosse la sua unica occasione per impedire una paresi al braccio: dopo averlo tenuto sollevato per quattordici minuti di riprese, ci sta.
La presentazione termina da lì a breve.
Conosco i ragazzi che hanno letto il mio libro, scrivo una dedica sulla prima pagina delle loro copie, li abbraccio, li bacio, faccio alcune foto e un po’ di propaganda a Melissa, invitandoli a leggere la pagina di Facebook.
La professoressa Manno offre a tutti un caffè, se non fosse che nello spazio accanto al bar, c’è un sound da paura, vogliamo tutti sapere chi sta suonando.
Entriamo e dietro a una consolle, c’è il sosia di Arturo Muselli, uno degli attori di Gomorra, l’idolo del mio amico Lorieri: si pettina pure come lui. Si chiama Vincenzo Molino ed è un famoso dj di Napoli.
Ha un progetto: “Visionary Lab” con cui vuole stimolare la creatività musicale dei ragazzi, mostrando loro nuove prospettive e ambizioni lavorative. La sua idea è quella di prevenire il disagio causato dalla dispersione scolastica, di scoprire nuovi talenti e di dare a tutti gli alunni la possibilità di appassionarsi alla musica, con la produzione di eventi musicali che contribuiscano a realizzare esperienze gratificanti e creative.
Vincenzo vuole cambiare l’idea delle discoteche in cui lo sballo diventa necessario, la discoteca è un club in cui condividere le passione per il ballo e per la musica, non deve essere necessariamente un luogo di perdizione.
Insegna ai ragazzi a eseguire brani utilizzando programmi musicali con strumenti e campioni sonori. Insegna loro come usare in maniera espressiva la tecnica produttiva musicale, stimolando il loro stile personale nel comunicare emozioni, sensazioni e atmosfere. Ma allo stesso tempo, insegna come utilizzare al meglio le proprie capacità per soddisfare i propri desideri.
Direi che su questo siamo tutti d’accordo.
Durante il viaggio di ritorno, sul treno che ci sta portando a casa, mi chiedo se questa cosa del ‘seguite le vostre passioni ragazzi!’ abbia contagiato anche a Giaco. Di recente ha apertamente dichiarato alla famiglia di voler iniziare un corso da dj: mi piace pensare di essere io quella scintilla che ha riacceso la sua fiamma per il mixer.
Guardo la valigia che ho infilato nel vano che sta sopra la testa di una signora seduta di fronte a me, e penso che questa volta, al mio bagaglio — oltre a un paio di leggings in ecopelle bianca di Zara — ho aggiunto anche questa bellissima avventura.
Le scuole sono proprio stimolanti.
Sai che faccio? Lunedì chiamo la mia vecchia scuola e propongo alla preside lo stesso progetto: accetterà sicuramente.
L’ho chiamata due volte, sto ancora aspettando che mi richiami.
Quasi quasi riprovo martedì.
Illustrazione: Valeria Terranova