lla parola Yamamay, mi accasciai tra il primo e il secondo gradino della mia scala. Mi ci vollero dai tre ai quattro secondi per realizzare che stavamo davvero parlando della famosa azienda di intimo, e il fatto che chiedessero a me di fare una foto, mi lusingava moltissimo, avrei accettato a qualsiasi condizione.
Mi ricomposi e cercai di frenare l’entusiasmo — senza riuscirci.
“Ma è una f****a pazzesca!”
“Qui c’è scritto: Yamamay, che da sempre ascolta le donne e comunica con i loro corpi, celebrandone ogni sfaccettatura, lancia la nuova campagna. Un progetto innovativo anche nella concezione dell’immagine, che, per la prima volta senza fotoritocchi, rafforza la coerenza del messaggio: sentirsi bene con il proprio corpo e con il mondo che ci circonda, in maniera autentica e naturale.”
“Senza ritocchi?”
“Amo…” disse con rimprovero. “Tu sei l’ultima che deve lamentarsi: hai avuto due figlie, ti alleni tutti i giorni, sei in forma…”
“Ma qui si sta parlando di una foto in lingerie, giusto?”
“Sì, ti chiedono di scegliere un completo intimo che ti spediranno al più presto.”
“Solo Giaco mi ha vista nuda senza filtri.” mormorai. “A proposito: il filtri sono considerati un ritocco?”
“Lo dicono espressamente: no filtri, no correzioni, no ritocchi.”
“Mi vergogno.”
“Amo non esiste. Il messaggio che ci chiedono di esprimere è ammirevole: tutte le donne, non solo le modelle, possono sentirsi a loro agio con il proprio corpo…”
“Ma la foto in mutande devo farla io.”
“Eh! E io ti trucco.”
Ringhio mi raggiunse a Forte, dove trascorrevo il periodo estivo con le bimbe.
Avevamo scelto la mia camera da letto per lo shooting, e siccome la condizione necessaria era la naturalezza della foto, facemmo attenzione alla luce, che in quella situazione, era la sola che potesse aiutarci. Valeria aveva fatto il suo: sfoderato la sua squadra di pennelli migliori e temperato le matite. Si era impegnata a uniformare il colorito, a eliminare le imperfezioni e a valorizzare ciò che comunemente le donne definiscono difetti. La sua mano aveva fatto la differenza: mi sentivo bella, ero a mio agio.
La foto uscì, così, senza ritocchi, ero orgogliosa. Era una foto in intimo che avrei riguardato a ottandadue anni, ripensando ai bei tempi andati, rimproverandomi le critiche che nella vita non mi sono mai risparmiata.
Ci furono altre collaborazioni interessanti, ma ciò che mi risultava difficile era conciliare la promozione dei brand con la mia attività di scrittrice. Il mio modo di comunicare era diverso, ma nessuno mi avrebbe mai considerato una vera scrittrice se non avessi manifestato al mondo la mia seria volontà a impegnarmi in una carriera che sembrava inarrivabile. E un giorno, su quella scala, su cui lavoro ancora oggi, decisi di mollare la mia attività di blogging, e di concentrarmi sui libri che desideravo scrivere.
Rinunciai, così, a tante potenziali collaborazioni e al budget che esse mi avrebbero fornito, e pian piano, tutte le aziende importanti con cui avevamo lavorato in quegli anni, si dimenticarono di noi. Un’immagine no profit avrebbe conferito alla mia vera passione più autorevolezza. Questo era ciò di cui ero convinta, ma oggi devo ricredermi.
Oggi, in cui tutto è stato detto, in cui tutto è stato scritto, non ci si può focalizzare su una cosa soltanto. La società ci impone di essere multitasking, e di sfruttare al massimo la caratteristica che più ci distingue. E seppure mi piacerebbe aggiungere che tale deduzione è frutto della mia maturità professionale, purtroppo non è così. A illuminarmi su questa delicata questione, è stata Daniela, la ragazza che mi ha invitato a Messina nella sua libreria a presentare il mio libro — durante una chiacchierata al telefono, un paio di settimane fa.
“Enrica, senti, sto leggendo il tuo libro…”
“Ci sono due errori di battitura, lo so.”
“Non me ne ero accorta, ma devo dirti un’altra cosa.”
Dal tono di voce, sembra qualcosa di più grave.
“Sto ancora cercando di capire come impostare la presentazione, ma credo che dovresti sfruttare la tua ironia a 360 gradi. Non dovresti limitarla solo alla scrittura. Tu sai fare cabaret, hai una bella comicità e devi portarla sul palco.”
Ricevuto. L’ho fatto una volta a Jesolo, e posso rifarlo.
“Vale, ho sentito Daniela della libreria, è stato come bere una Red Bull.”
“Ah sì? E che ti ha detto?”
“Ti dico solo che ho uno slogan: chi si perde Messina, si perde il mio spettacolo.”
Illustrazione: Valeria Terranova