elissa attenta: c’è un altro semaforo a ore nove, e se non curvi lentamente, ti troverai la felce in braccio un’altra volta.
Dannata forza centrifuga.
Dopo dieci minuti di guida sicura, arrivo davanti a casa.
Mi volto verso la felce: è immensa, devo chiedere aiuto a Cassandra — e legare Max all’albero durante questa operazione delicata.
Afferro la maniglia della porta, immaginandomi ciò che mi aspetta, in quest’ordine:
1. Max che mi assale.
2. Cassandra che mi chiede se ho visitato qualcuno con un padrone carino — alla ‘che ce l’hai un gratta e vinci te?’ — (Pieraccioni, Il Ciclone, 1996.)
Ma apro la porta e non trovo nessuno. Perché mi hanno abbandonato?
Okay. Devo reagire. Forse sono solo usciti a fare una passeggiata.
Ora, scaricherò la felce da sola, mi esploderà un’ernia e farò una sorpresa a Cassandra.
Torno verso la macchina, apro la portiera
e mi levo il cappotto per lavorare meglio.
I palmi delle mani raccolgono le maniche del maglioncino infeltrito e afferrano il fusto della felce: in un attimo, sono catapultata in un film americano.
Ho un cappello rosso di lana in testa e canto Jingle Bells mentre scarico l’albero di Natale. Ma nella cruda realtà, è solo una fredda giornata di marzo con zero gradi: mi verrà una polmonite.
Infilo una mano sotto il vaso, do un colpo di reni e riesco a fare uscire la giungla dall’auto, ma la portiera rimane aperta: a lei penserò più tardi.
Entro in casa e sistemo la felce.
Mi sento come Rocky dopo la scalinata del Museum of Art di Philadelphia: sudata e fiera di me.
Questa è decisamente più grande della precedente e arreda meglio la stanza: bravo Max! Alla fine ci ha fatto un favore.
Sembra quasi che abbia sentito i miei pensieri, la porta si apre e lui corre verso di me per travolgermi di baci.
“Melissa! Questa felce è bellissima! Come hai fatto a portarla dentro da sola?” mi chiede Cassandra eccitata.
“In effetti, credo di avere un polmone collassato.”
“Sono fiera di te, lo sai?”
“Per così poco, figurati…” dico cercando di nascondere l’imbarazzo provocato da un complimento inaspettato.
“Non parlo della felce…”
Cassandra mi guarda con un’espressione commossa, che pezzo mi sono persa?
“Parlo di questo!”
E lo vedo lì, tra le sue mani: il libro che ho comprato stasera.
“La portiera era aperta, l’ho visto sul sedile… Il segreto di Chanel Nº5…” conclude leggendo il titolo soddisfatta.
“Be’ sì, in effetti…”
“Ho sempre saputo che ti saresti convertita! E l’altro? Il mio Lessico della stile? Scommetto che lo hai già divorato…”
Il termine non potrebbe essere più azzeccato, peccato che sia stato Max a seguire il suo consiglio alla lettera.
“Diciamo che ho preferito accostare due letture con uno stile diverso.”
Cosa non direi per insabbiare la verità?
“Fammi vedere dove sei arrivata…”
Sento le mani fredde e sudate, la lingua felpata e le guance in fiamme: mi sta chiedendo qualcosa che non posso mostrarle, nemmeno se aspettassi i tempi digestivi di Max riuscirei ad accontentarla.
“L’ho lasciato al lavoro”, dico improvvisando, “sai, tra un paziente e l’altro…”
“Giusto! A proposito di pazienti, ne hai visitato qualcuno con un padrone carino oggi?”
E con quella domanda capisco che siamo tornati ai vecchi standard: sono fuori pericolo.
La sveglia suona, ma è la lingua di Max sulla faccia a darmi il buongiorno.
Ieri notte è rimasto in camera con me, ho addirittura chiuso la porta a chiave per evitare che combinasse altri guai: stamattina non posso arrivare in ritardo.
Mi alzo e apro l’armadio. E mi esce così, quasi senza accorgermene, la domanda che mai avrei immaginato di pormi: cosa mi metto?
Deve essere a causa del libro con la copertina rosa — che non ho ancora cominciato, ma che ho preventivamente nascosto sotto il cuscino — se mi escono frasi come questa. O è il mio senso del dovere nei confronti di Cassandra?
Non so, ma il mio armadio è la sintesi della praticità: la mise più stilosa che potrei tirarne fuori è giusto ‘nu jeans e ‘na maglietta’ — per citare Nino D’Angelo.
Ma fa troppo freddo: jeans e maglione andranno benissimo.
Ne prendo due a caso e li appoggio sul letto, poi vado in bagno.
Mi lavo il viso e mi guardo allo specchio: ho un colorito spento, gli occhi ancora assonati e i capelli sconvolti.
Potrei mettere un po’ di fondotinta… magari anche una passata di mascara e una di rossetto trasparente, ma la voce make-up non è contemplata nella mia daily routine. Mi resta solo mezz’ora prima di uscire di casa, e devo ancora vestirmi, fare colazione e portare fuori Max per una passeggiata: l’unico fuori programma che posso concedermi è una coda di cavallo.
Dopo quindici minuti, sono pronta.
Lego Max al guinzaglio e usciamo di casa.
Porto il viso verso il basso, per scrutare dall’alto il mio ‘outfit of the day’, e devo ammettere che è nettamente migliorato rispetto a ieri, ma la parte di me che vorrebbe compiacersi del risultato, sembra frenata dall’altra: quella che ha il terrore di cambiare, quella che si ostina a non voler dare peso a queste ‘cose’, e le sneakers mangiucchiate, per quanto terribili, riescono ancora a farmi sentire al sicuro.
Sono sempre io, non è cambiato niente, mi ripeto mentre Max finisce il suo giro, ma so anche che, prima o poi, dovrò iniziare a leggere quel libro.
Di cosa ho paura? È solo moda, non è anatomia.
E quel pensiero confortante mi conduce sulla porta di casa.
Saluto Max, gli do un bacio e mi metto un auto.
Me ne sto lì: con le mani sul volante, il piede sull’acceleratore, mentre canticchio a squarcia gola ‘California Gurls’.
È una bella giornata, il sole brilla alto nel cielo, e anche se ho la musica a palla, mi sembra quasi di sentire gli uccellini che cinguettano. Mi sento invasa dalla felicità. Ma come può essere che un secondo dopo, ti guardi nello specchietto retrovisore e lo senti nelle viscere che non c’è niente da ridere?
A me sta succedendo adesso.
L’immagine che mi ha tolto il sorriso è lì davanti ai miei occhi: la padrona di Ben.
So cosa mi aspetta. Dovrò spiegarle ogni singolo dettaglio riguardo l’asportazione del canino, e a colazione ho mangiato solo una brioche: mi distruggerà.
Come posso fare?
Scendo dall’auto, raggiungo l’ingresso della clinica e non riesco a smettere di chiedermelo. Le porte automatiche si aprono e mi trovo di fronte Giulio.
Guardo l’orologio, sono le nove, non c’è tempo da perdere: lei sarà qui a minuti.
“Giulio, vieni con me.”
“Che hai? Sembra che tu abbia appena visto un fantasma.”
“Hai controllato Ben?”
“Sì, è in forma: non ha nemmeno cercato di mordermi.”
“Era quello che volevo sentire. Ascolta, tra poco verranno a ritirarlo: io preparo la terapia, ma alla padrona logorroica ci pensi tu, okay?”
“Certo. Vado solo in bagno un attimo.”
dice allontanandosi.
Rientro nel mio ambulatorio e mi siedo alla scrivania per decidere l’antibiotico perfetto, ma mentre faccio per calcolare il dosaggio, Lucia, la responsabile del reparto ecografico, bussa alla porta che ho lasciato socchiusa.
“Melissa ciao, sono venuti a ritirare Ben.”
“Giulio non c’è? Avevo chiesto a lui di occuparsene…”
“Qui non c’è. Scusa, mi aspettano di sopra.”
E mi lascia lì: sola, a trovare una soluzione in tempi record.
Quando Giulio mi ha detto “vado in bagno un attimo” non mi sembrava avesse una colica renale, dove diavolo è finito?
Ma sul punto interrogativo, sopraggiunge una paresi. Non riesco a muovermi.
E io che temevo potesse essere un fiume di parole a rovinarmi la giornata, e invece… Non si è mai pronti per una cosa come questa, non si è mai pronti a trovarsi di fronte un ex fidanzato. — Specie se non sei truccata, e la sola cosa femminile che hai addosso è una lunga coda di cavallo.
Marcello: il peggior primo grande amore della storia. Alto, moro, occhi scuri, è pure fisicato ed è bello come quando gli ho detto addio.
È davanti a me e io vorrei sfumare come il vino dentro la pentola dell’arrosto.
Anche se Dio decidesse di incenerirmi, non la prenderei male, purché lo faccia adesso. Per favore.
No, sono ancora qui: devo dire qualcosa.
“Ciao Marcello! Vieni accomodati.”
Lui mi raggiunge dietro la scrivania e mi saluta con un paio di baci sulle guance.
“Mel! Non sapevo che lavorassi qui!”
Te ne sei andato prima della laurea.
“Già. Sono uno dei soci. E tu? Sei sempre lo stesso!”
“No… mi sono sposato.”
Mi riferivo all’aspetto, cretino. Ma in fondo lo è sempre stato… anche in quel senso non è cambiato. Mi sforzo di sorridere un po’ di più.
“Sì, ho immaginato, ho conosciuto tua moglie ieri.”
“Oh già. Lei è adorabile…”
Adorabile? Ma ci ha mai parlato? Come può definirla ‘adorabile’?
“Era un po’ preoccupata, ma è andato tutto bene. L’operazione…”
“E tu? Sei sposata?”
“No.”
“Fidanzata?”
Okay: facciamola finita.
“Sì, ho anch’io un fidanzato adorabile.”
“Come si chiama?”
Mi guarda con un sorriso smagliante aspettando il nome, e io non so cosa dire.
La conversazione doveva concludersi alla battuta precedente: io gli avrei dato la cura, gli avrei consegnato Ben e poi — con calma — avrei ucciso Giulio, e invece devo dare un nome al fidanzato immaginario.
“Max! Si chiama Max.”
E prima che possa aprire bocca per farmi un’altra domanda, arrivo al sodo: fa troppo male stare qui, in questa stanza con lui.
“L’operazione è andata bene e i suoi valori sono perfetti. Ora, stampo la terapia e ti consegno il guerriero.” dico, facendogli segno di accomodarsi.
“Anche tu sei sempre la stessa.”
In realtà, ho perso dieci chili. Cretino.
“Davvero?” chiedo con un sorriso di plastica.
“Davvero. Sei sempre la solita sognatrice.”
“Già.”
Le dita battono sulla tastiera, il mio sguardo fissa il monitor: so di essere fuori pericolo, ma poi, mi esce una domanda. Se non gli chiedo questa cosa ‘adesso’, non ci saranno altre occasioni.
“Tua moglie mi ha detto che avete due bambini…”
“Sì, Aurora ha dodici anni, ma Serena l’ha avuta da una storia precedente.”
E questo, se non altro, mi toglie il dubbio che non tradisse me e l’altra con una terza ragazza.
“E poi, c’è Gian Marco: ha cinque anni.”
Si scioglie mentre pronuncia il suo nome, e io sento un groppo in gola.
“Ti assomiglia?”
“Siamo due gocce d’acqua.”
Il clone di un cretino che amavo e che mi ha spezzato il cuore.
“Ecco, questa è la terapia. L’antibiotico, mi raccomando: mattina e sera nelle dosi indicate.” dico porgendogli la ricetta. “Ora vieni, andiamo da Ben.” concludo alzandomi.
Raggiungo la porta e vedo Giulio entrare trafelato.
“Meglio tardi che mai. Dove diavolo sei stato?” dico sottovoce, indicando l’uomo alle mie spalle con la coda dell’occhio.
“Lascia perdere: ho avuto una piccola colica renale.” bisbiglia.
Forse è quella che gli ho tirato io.
“Prego, mi segua, le consegno il cane.”
“Ciao Mel, mi ha fatto piacere rivederti.” dice uscendo.
Io alzo la mano in segno di saluto.
Lo vedo percorrere il corridoio, chiudo la porta alle mie spalle e mi viene da piangere.
TERZO EPISODIO
Illustrazione: Valeria Terranova