on permetterò che la scelta di un abito sia la mia prima preoccupazione — anche se si tratta di indossarlo in occasione di una cena/imboscata, a casa della direttrice di una rivista di moda. Non le darò questa soddisfazione.
E poi mi sento ancora in colpa per aver dimenticato il compleanno di Luca: il suo regalo deve avere la precedenza, e seppure io stessa stenti a crederlo, ho già un’idea.
Se una parte di me si accontenta del numero di informazioni ricevute riguardo il suo passato, l’altra sente il desiderio di risvegliare le emozioni che quel passato gli ha sottratto: se riscoprisse le sue vere passioni, ritroverebbe se stesso. Luca amava la chitarra e dovrebbe rincominciare a suonarla.
E lì, mentre lo immagino cantare per me — davanti al camino acceso — arrivo nel parcheggio della clinica.
Scendo dall’auto, mi avvicino all’ingresso. Come da copione, sento un’auto arrivare: è Britney, senza Thor stavolta. Oggi è il giorno dell’operazione, immagino che sia agitata.
La raggiungo, la vedo chiudere la portiera, precipitarsi verso il baule e recuperare la gabbietta con Minou.
“Vuoi una mano?” le chiedo.
“No, grazie. Sono già arrivati?”
L’ansia che sento nel tono della sua voce, mi fa capire che i miei presentimenti siano fondati: mi serve lucida, devo calmarla.
“Non credo… ma intanto entriamo, liberiamo Minou e aspettiamo, che ne pensi?”
“Sì, giusto, meglio farla uscire e tranquillizzarla un pochino.”
Quando Britney è in compagnia del suo aristogatto, fatico a riconoscerla: mi fa quasi tenerezza.
Le porte scorrevoli si aprano, Federica ci riferisce che la squadra di Parma ha appena telefonato, saranno qui tra poco. Cristina si fionda nel suo ambulatorio, la seguo e chiudo la porta.
Minou esce dalla gabbietta, mi chino per accarezzarla e le do un’occhiata: l’orecchio versa sempre in quello stato, ma nel complesso è una signora di bell’aspetto. Lo sguardo è vispo, anche il suo miagolio non ha più quel suono strozzato: Britney l’ha rimessa in sesto.
“Allora, che mi dici dello chef?” esordisco nel tentativo di alleggerire l’atmosfera.
“Come puoi pensare a mangiare in un momento come questo?”
Vorrei ricordarle che abbiamo una festa da organizzare, e che se non troviamo il Cracco della situazione, nessuno mangerà.
“Conosco i medici e so che si sono occupati di casi anche più gravi, Minou è forte, non devi preoccuparti.”
“Dici davvero?”
“Certo che dico davvero.”
I suoi occhi trovano la pace e mi danno il segnale: questo è il momento di distrarla.
“Avevo pensato a un menu leggero…”
“Anche io, senza dubbio. Vorrei qualcosa di tipico… con un sapore invernale…”
La convinzione con cui pronuncia quelle parole, guardando il soffitto in cerca di ispirazione, la fa sembrare molto preparata. Ma le connotazioni che ha dato al menu mi fanno pensare al Natale di mia madre. E lì, mentre vorrei sottolineare che non dovrà essere un cenone di Capodanno, il telefono sulla scrivania squilla. La squadra è arrivata.
Britney si precipita su Minou per prenderla in braccio, usciamo dall’ambulatorio e ce li troviamo di fronte. Sono tutti vestiti di bianco: sembrano i RIS.
Riconosco la ragazza che occupa la parte centrale del trio. Ma non ricordo il suo nome. Dannata memoria.
Le stringo la mano.
“Ciao, come stai?”
“Molto bene. Tu?”
“Tutto bene grazie, lei è Minou.” annuncio voltandomi verso Britney che la tiene in braccio.”
“Vorrei assistere all’operazione.”
“Non credo sia il caso…” bisbiglio.
Ma lei scansa gli occhi dai miei, li riempie di compassione e li sposta verso i RIS.
“Allora, posso assistere?”
“Siamo una squadra.” dice uno dei due dottori.
“Puoi fidarti di noi.” conclude l’altro.
Britney si arrende, saluta Minou e la affida alla dottoressa. Ora è il mio turno: devo impedirle di piangere.
“Cristina, vieni con me, ho bisogno di un consiglio…” dico tentando di incuriosirla, mentre mi incammino lungo il corridoio.
Mi segue come se non avesse altra scelta: tiene il capo chino verso il basso e le braccia rassegnate lungo i fianchi.
Mi fermo ad aspettarla, solleva la testa e la sporgenza del suo labbro inferiore mi dice che sta per scoppiare in lacrime.
La prendo a braccetto, la conduco nel mio ambulatorio e la faccio sedere. Credo sia giunto il momento di affrontare il concetto positività.
Già, perché abituarsi a pensare in modo positivo, nove volte su dieci, allontana la sfortuna, e noi ne abbiamo bisogno.
“Senti Cristina, è di Minou che stiamo parlando, quindi, stammi a sentire: c’è una scuola di pensiero che sostiene che allineare la mente in uno stato di positività, consenta di superare gli schemi negativi per crearne dei nuovi, dei nuovi più ottimisti…”
“Se mi preoccupo per lei, rischio di portarle rogna? È questo che stai dicendo?”
È furiosa, ma mi permetto di dissentire.
“In effetti non ti vedo stringere tra le mani la medaglia olimpica della fiducia.”
Cristina si ammutolisce.
“Tu devi essere la prima a concederle una possibilità. È vero che non è un gatto giovane, è vero che ha avuto i suoi problemi, ma ti sei presa cura di lei e non è più la stessa che hai trovato per strada.”
Annuisce, trattiene il pianto.
“Mentre parliamo, c’è una squadra specializzata che si sta occupando di lei: devi pensare positivo, lo devi a tutte e due.”
“Hai ragione anche su questo, da ora in poi penserò positivo.” conclude in tono solenne. “A proposito, che consiglio ti serviva?”
La sua domanda mi spiazza: è la prima cosa che mi è venuta in mente per allontanarla dalla sala operatoria: non chiederei mai — e sottolineo mai — un consiglio a Britney.
“Be’, ecco…”
“Ho capito…”
“Cosa?”
“Devi fare un regalo a Luca e ti serve una mano.”
Sono basita: ha dei poteri paranormali?
“Come fai a saperlo?”
“C’è un post-it: ‘Venerdì è il compleanno di Luca.’”
Lo indica, mi volto: è sul calendario appeso alla parete dietro di me. L’ho appiccicato ieri — accanto a un altro di colore diverso, che mi ricorda di assumere integratori di fosforo.
A questo punto non mi rimane altra scelta: devo dirglielo. Ma ho un piano: mi limiterò a fare un breve riassunto e dirotterò l’attenzione sulla necessità di trovare una chitarra. Se mi aiutasse a cercare un negozio, si sentirebbe socialmente appagata e invogliata a pensare positivo: è una strategia perfetta.
“Esatto!” dico con entusiasmo forzato. “Venerdì Luca compie gli anni e ho pensato di regalargli una chitarra.”
“Una chitarra? E perché?”
Lo chiede quasi con disgusto.
“Perché sì.”
“Non sarebbe meglio un profumo abbinato a un dopobarba?”
Va ancora di moda? Credevo che solo mia
madre regalasse ancora profumo e dopobarba.
“Ormai ho deciso per la chitarra, è più il suo genere. Sai dove posso comprarla?”
“Sicura?”
“Conosci un negozio oppure no?” domando esausta.
“Fammi pensare… sì, lo conosco. Un negozio di dischi e strumenti: uscivo con il proprietario…”
“Davvero?” la interrompo eccitata, pensando a un possibile sconto.
“Poi l’ho lasciato e ora mi odia.”
Niente sconto.
“Okay… non dirò che mi mandi tu. Ti ricordi il nome?”
“Aspetta, lo cerco.”
Britney infila la mano in tasca, afferra il cellulare, digita qualcosa sulla tastiera e dice: “Scrivi: Casa della musica, Via Emilia Est 238. Modena.”
Sapevo che i RIS ce l’avrebbero fatta.
Ora Britney può concentrarsi sullo chef: l’Intervento di Minou è andato bene.
Un po’ meno bene è andata la mia lezione di Yoga. Comincio a capire le cicogne: anche io sono un tronco come loro, di smuovermi non c’è verso. Ma le mie sofferenze sono state ripagate: ho recuperato i contatti delle due invasate, e ho già spedito loro l’invito: ci saranno.
Che vergogna: l’unica che non pratica sport sono io. E lì, mentre esco dalla clinica, considerando l’ipotesi che dovrei riprendere a nuotare per incentivare la mia autostima sportiva, ricevo un messaggio di Jerôme.
“Ciao Melissa, come stai?
Ho ricevuto i biglietti di easyJet, ti ringrazio, non dovevi disturbarti.
Ho pensato di portare un amico, adoriamo l’Italia e vorremmo approfittarne per visitare Roma. Che ne pensi?
Come procedono i preparativi?
Fammi sapere
Un abbraccio
Jerôme.”
Salgo in auto diretta alla Casa della musica e sono felice che Jerôme non venga solo.
Se qualcuno all’ultimo dà picche, le probabilità di essere tredici al party diminuiscono.
Arrivo al negozio alle sette precise, ad accogliermi c’è un signore sorridente.
È molto più vecchio di Thor, non credo che sia lui l’ex ragazzo di Britney. Sembra affabile: non ha l’aria di qualcuno capace di odiare qualcun altro.
Mi guardo attorno cercando di farmi un’idea, osservo gli esemplari appesi alle pareti, ma riesco giusto a distinguerne i colori, non ho nessun riferimento tecnico a cui aggrapparmi.
Ho deciso: sarò semplice: “Vorrei una chitarra.”
È un po’ vago, lo so, ma come ho detto, la mia preparazione in materia è del tutto inesistente.
È lui ad aiutarmi: “Acustica o classica?”
“La differenza?”
“Sta nel tipo di corda: nella classica è in nylon, nell’acustica è in metallo.”
Non mi sta dicendo nulla.
“Con la classica si suona la melodia, con la folk si fa accompagnamento.” continua.
Deduco che i termini ‘folk’ e ‘acustica’ siano sinonimi, ma io penso solo al camino acceso e a Luca che canta per me.
“È per il mio ragazzo, sa già suonare.”
Mi gaso mentre lo dico. E me ne pento un secondo più tardi: se mi avesse frainteso e mi proponesse una chitarra troppo costosa?
“Ma non è un professionista…” mi affretto ad aggiungere nervosamente.
Il signore dal sorriso gentile pare aver capito il messaggio. Si volta, ne afferra una nera lucidissima che sta sopra la sua testa e la appoggia sul banco per mostrarmela.
“Questa è una YAMAHA APX T2: una chitarra acustica amplificata con accordatore integrato. Costa 219 euro, ma posso farti 200 e la borsa è compresa.”
“Mi piace. Venduta.”
Dopo dieci minuti sono fuori dal negozio, dopo aver scoperto che il signore delle chitarre si chiama Moreno. È simpatico.
Siamo d’accordo che ritirerò il pacco la prossima settimana, prima di consegnarlo a Luca. Viste le dimensioni e la mia sbadataggine, rischierei di rovinare la sorpresa.
E ora che la questione regalo è conclusa, posso pensare al vestito, ma gli concedo al massimo dieci minuti, il tempo che impiegherò per tornare a casa. Non uno di più.
Salgo in auto, metto in moto: il tragitto si trasforma in un momento di meditazione.
Ripenso alle ultime pagine di diorese che ho studiato e credo che la risposta sia proprio in quelle righe.
Dopo il viaggio negli Stati Uniti, Dior nota la differenza che passa tra le donne americane e le donne europee. Le prime si dedicano molto di più alla loro persona. Tutte le donne americane indossano abiti impeccabili, hanno capelli impeccabili, calzano scarpe impeccabili. E seppure un po’ di impeccabilità americana non farebbe male alle donne europee, Dior sostiene che a furia di curare i dettagli, si rischia di cadere in un modello standard. L’esagerazione nuoce all’eleganza.
L’America preferisce la quantità alla qualità, le donne statunitensi preferiscono comprare tre vestiti nuovi, piuttosto che uno solo molto bello. E non impiegano molto a decidersi. Il loro modo di acquistare è frettoloso ed è molto diverso da quello delle donne francesi, che acquistano con metodo, tenendo conto del rapporto qualità-prezzo.
Una donna che può comprare un abito soltanto valuta la sua scelta in modo ponderato. E spesso succede che una donna che possiede un solo abito sia molto più elegante di una che ne ha molti.
E visto che sono una donna europea, so che quell’abito è già nel mio armadio.
È giunta l’occasione di indossare una Bordignon creation, l’abito blu di Enrico.
Chic, elegante, a prova di Mila: deciso.
Ma non posso ancora permettermi di abbassare la guardia, venerdì sarò in un atelier da sposa a provare un vestito rosa pallido: non permetterò a Cassandra di conciarmi come un confettino.
CINQUATREESIMO EPISODIO
Illustrazione: Valeria Terranova