etto il telefono sul sedile del passeggero e afferro il volante a due mani.
Lo sguardo, che pare rimanere fisso sulla strada, si sposta a intermittenza sul display del cruscotto, puntando l’orologio: ogni minuto che passa è una stretta al cuore.
Ho immaginato la nascita dei cuccioli almeno mille volte e mai avrei pensato che potesse essere Britney a farli venire al mondo: non posso permetterlo, devo anticipare il dottore.
Quanto mi ci vorrà? Quindici minuti?
E lì, mentre accelero, sforzandomi di capire se esista una scorciatoia capace di farmi arrivare alla clinica più velocemente, la macchina che mi sta davanti sorpassa e mi lascia di fronte a un camion rimorchio, che viaggia a trenta chilometri orari. È in momenti come questo che rimpiango di non essere nata nel 2094: tra settantacinque anni, sono quasi certa che le auto saranno capaci di volare. Ma nel 2019, non mi resta che tentare un sorpasso che definire azzardato è riduttivo.
La carreggiata è stretta, la visuale non è delle migliori e ha appena iniziato a piovere: devo fare attenzione.
Controllo lo specchietto retrovisore: non c’è nessuno dietro di me. Sposto gli occhi sul parabrezza e vedo lo spazio sufficiente per la manovra: scalo la marcia e spingo il piede sul gas. Il cuore mi batte all’impazzata, e se ora sbucasse una macchina? E se a causa della mia imprudenza raggiungessi il paradiso, senza essere diventata nonna?
Ma l’auto non sbuca e il sorpasso si conclude con successo — come la mia lezione di guida insicura: visti i precedenti, non mi pare il caso di sfidare la sorte.
La strada, finalmente libera, mi consente di aumentare la velocità e di recuperare terreno senza altre imprudenze, quando in lontananza, vedo un semaforo. È verde, anzi no, è giallo: sarà meglio frenare.
Ferma, sotto quell’oggetto metallico lampeggiante, simbolo di grande autorevolezza, sbuffo: i minuti sembrano ore. Abbasso lo specchietto retrovisore per valutare il mio aspetto ed è un sollievo sapere che i cuccioli avranno ancora gli occhi chiusi. E molto probabilmente sono chiusi anche quelli di chi sta guidando l’auto che si dirige a tutta birra verso la mia. È così veloce che sembra che qualcuno l’abbia lanciata con la fionda: è sempre più vicina.
D’istinto spingo il piede sul pedale del freno e suono il clacson nel tentativo disperato di salvarmi, ma lo stridere delle gomme mi fa capire che l’impatto si avvicina, stringo il volante a due mani e mi preparo.
Il mio avvertimento è stata provvidenziale: l’urto è minimo. Scatta il verde.
So che dovrei accostare, scendere, compilare il modulo di constatazione amichevole, trascrivere i numeri di targa e fare un disegnino per spiegare l’accaduto alle rispettive assicurazioni, ma piove e ho i cuccioli da salvare: non ho tempo per queste sciocchezze. Parto a tutto a gas.
Rifletto sulla comicità tragica di ciò che è appena successo: di solito è chi tampona a fuggire, non il tamponato, e mentre valuto quanto mi costerà questo azzardo, arriva una telefonata del dottore. Il frontale che ho schivato prima mi sta chiedendo gli interessi.
Riacciuffo il telefono che è rimasto al suo posto e rispondo concitata: “dottore sono per strada!”
“Lolita sta partorendo!”
La disperazione che sento nella sua voce amplifica il mio senso di colpa.
“C’è Cristina che la sta aspettando: è bravissima, si prenderà cura di Lolita. Mi creda, è in buone mani.”
Senti cosa mi tocca dire.
Riattacco e mi precipito sulla rubrica a cercare il numero di Britney. La chiamo.
“Ci siamo?” chiede eccitata.
“Ci siamo: il dottore è fuori che ti aspetta.”
La rassegnazione con cui pronuncio quelle parole mette fine alla telefonata. Ora sarà lei a prendersi cura della fidanzata del mio cane.
La resa contagia anche il piede che tengo sul gas: si alza, facendo abbassare la lancetta del contachilometri. Mi sono persa un momento memorabile. O forse no? Forse sono ancora in tempo: i cuccioli non sono ancora nati.
Non ho rispettato i limiti di velocità, ma ho tenuto conto del colore dei semafori, fatta eccezione per l’ultimo: un fotofinish tra il giallo e il rosso, ma ora sono qui: nel parcheggio della clinica.
Schizzo fuori dall’auto e mi fiondo sul retro. Il danno non è esagerato: il portellone si apre ancora. Afferro l’ombrello che giace sul pianale, lo apro e mi precipito verso l’ingresso.
Federica capisce al volo che non ho tempo di salutare, mi sto chiedendo dove sia Lolita. Punta il dito verso il corridoio e dice: “nell’ambulatorio di Cristina.”
Come immaginavo.
Lascio cadere l’ombrello, mi tolgo il cappotto, inizio a correre. Afferro la maniglia della porta e la apro come si fa nei film drammatici: mi trovo di fronte il dottore che sta sorridendo.
Getto lo sguardo sul tavolo su cui giace Lolita e vedo due piccoli cuccioli vicino a lei: hanno le macchie, proprio come Max.
Ora sorrido pure io, sono eccitata, felice.
Anche Lolita sembra aver messo fine alle sue sofferenze.
Mi volto verso il dottore per congratularmi, ma Cristina chiama il mio nome e aggiunge: “C’è un altro piccolo in arrivo, vuoi pensarci tu?”
Mi sta dicendo che ho ancora una possibilità? Che posso assistere alla nascita di uno dei miei nipotini?
Infilo uno dei camici che trovo appesi dietro la porta. Mi lavo le mani e metto i guanti. Rassicuro Lolita, ma senza intervenire: un eccessivo stress potrebbe essere controproducente e causare l’inibizione del parto, ma andrà tutto bene.
E lì, mentre mi chiedo se sarà maschio o femmina — e che comunque sarà il mio preferito, visto che sarò io a farlo nascere — sbuca il sacco amniotico. Lo estraggo lentamente, Lolita è una primipara, avrà paura di romperlo, lo faccio io.
Non so ancora dire se sia un lui o una lei, ma di certo è color carbone. Come diavolo è potuto succedere?
Guardo Lolita con l’aria di chi si sente tradita, ma lei ha un musino innocente e scodinzola.
Sono una professionista, non voglio trarre conclusioni affrettate, farò delle ricerche. Forse ci troviamo di fronte a un miracolo della genetica: al primo caso al mondo di albinismo in forma inversa.
Lego il cordone ombelicale, lo taglio e massaggio il cucciolo con vigore delicato, liberandogli naso e la bocca per farlo respirare. Com’è carino.
Mi volto verso il dottore soddisfatta, ma lui pare aver smarrito il sorriso felice di poco fa: ha la faccia di chi non ha capito.
“Melissa… il cucciolo che è appena nato è nero…”
Crede che io non lo veda?
“Lo so, ma ora dobbiamo capire quanti ne restano e di che colore saranno…”
Lo dico con un’autorevolezza svampita, sfuggo il suo sguardo stordito e mi precipito sulla macchina ecografica per visitare Lolita.
Cristina sta fissando l’ultimo nato con un ghigno divertito: sta insinuando che Max non sia il padre? Avrei voglia di tirarle un calcio. A placarmi è scoprire che non ci sono altri cuccioli da far nascere: le sorprese sono finite.
Ho cercato di sorvolare riguardo alla mia teoria sull’albinismo inverso, non credo che il dottore si sarebbe convinto, non sono convinta nemmeno io.
Più tento di scansare un pensiero, più quello mi perseguita, e seppure non voglia ammetterlo, assomiglia a un presentimento che si chiama Benji: il cane del mio ex fidanzato. È già finito in clinica un paio di volte a causa del suo grilletto facile, e se avesse sedotto anche Lolita? E se i cuccioli non fossero i figli di Max?
Non mi resta che aspettare che crescano: dimensioni e aspetto mi diranno la verità.
Per tenere la situazione monitorata, mi sono offerta di occuparmi dei coniugi e della prole per qualche giorno: il dottore ha accettato con piacere, dice che si sentirà più tranquillo.
E tutto sommato, anche io ho necessità di fare una pausa. L’ultimo periodo è stato un tantino frenetico, una piccola vacanza è ciò di cui ho bisogno, specie ora, che mi aspetta una cena a casa di Jafar.
CINQUANTACINQUESIMO EPISODIO
Illustrazione: Valeria Terranova