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19 Mar

Una Nuova Vita Part 1

enrica alessi scrittrice crem's blog

enrica alessi scrittrice crem's blog

S

ono caduta nel sonno, lo sento.
Volevo dormire, dimenticare e forse, ci sono riuscita.
In un sogno si può ricominciare da capo, tornare indietro: a quell’estate del 2004, che cambiò la mia vita per sempre.
Salgo in macchina di corsa, metto in moto, apro il finestrino, ma il senso di nausea diventa sempre più forte. Metto fuori la testa come farebbe il mio cane per sentirsi meglio, ma con me non funziona. Ho freddo, ho caldo, non riesco a respirare. È ufficiale: questa è una crisi di panico. In ventotto anni non mi era mai successo. E ora cosa faccio?
Guardo lo specchietto retrovisore, metto la freccia a destra e accosto su un piazzale di ghiaia. Troppo velocemente aggiungerei, a giudicare dalla polvere che ho sollevato.
Sbuffo, tiro il freno a mano e cerco di calmarmi: è solo un colloquio di lavoro.
Continuo a ripetermelo da stamattina, ma l’ansia mi sta addosso come una coperta. Aspetto questo momento da una vita e ora, ogni cellula del mio corpo si tira indietro.
Non adesso, non adesso.
Ho bisogno di quel posto.
Cercano un designer per il reparto accessori e io sono la regina degli accessori, ne ho addirittura disegnato uno tutto mio.
Non è la solita borsa, non è il solito paio di scarpe, io mi sono spinta oltre… nella camera da letto, e ho creato la pantofola più bella degli ultimi dieci anni: nera, di raso con inserti in lapin. Tutte le donne ne vorrebbero una.
Devono assumermi.
Mi infilo gli occhiali da sole, sorrido allo specchietto per controllare di non avere residui di rossetto sui denti e spingo il piede sul gas. Dopo cinque minuti, sono già sotto casa di Michi: lui è lì che mi aspetta.
Michele è il mio migliore amico, anche lui è appassionato di moda, forse più di me.
Ha un debole per la fotografia, è un Helmut Newton di nuova generazione e dalla sua faccia, niente sembra essere a fuoco.
“Sei in ritardo!” mi rimprovera salendo in macchina.
“Lo so, ma non ti ci mettere anche tu: ho appena avuto un attacco di panico.”
“Sul serio? Cosa si prova?” chiede preoccupato.
“Vai a cercarlo su Google, io devo guidare.”
Esco dal viale di casa e imbocco la via principale, ma lui non mi dà tregua:
“Hai preparato un discorso? Hai preso i tuoi disegni? Il prototipo?”
E mentre fingo di concentrarmi sulle domande che mi sta facendo, mi esce la sola che mi assilla da stamattina:
“E se non dovessi piacergli?”
“Andrà tutto bene, non preoccuparti…”
“Lo hai detto anche nel ‘92, quando Audrey Hepburn tornò dal suo viaggio in Somalia.”
“Ma quello era un male incurabile… cosa potevo saperne io?”
“E lo hai detto anche il quindici luglio del ‘97: il giorno della morte di Gianni Versace.”
“Ops. Davvero?”
“Sì.” dico esasperata.
“Be’, devi pensare positivo. Libera la mente e focalizzati su una sola immagine…”
Perché alla parola ‘immagine’ la prima che mi viene è quella del cadavere di Gianni sulle scale della sua villa a Miami?
“Eva… l’immagine del successo…” dice con un tono da seduta ipnotica “… è lì che vuoi arrivare, giusto?”
“Giusto, ma prima devo arrivare in Via Galileo Ferraris, e anche il navigatore non sa dove sia.”
Dopo dieci infrazioni del codice della strada, e quattro violazioni di domicilio per chiedere informazioni, riusciamo ad arrivare a destinazione.
Attraversiamo le porte scorrevoli che si aprono al nostro ingresso, e ci avviciniamo alla portineria, dove le immancabili piante di ficus fanno da cornice. Un tizio in divisa ci chiede i documenti e ci lascia i pass con la scritta ‘VISITORS’.
Perché ogni volta che vedo scritto questo nome, mi vengono in mente i lucertoloni della serie TV che vedevo da bambina?
Ci manca giusto un topo da sgranocchiare nell’attesa. — Bleah, che schifo. Se non smetto di pensare a queste cose, rischio di dare di stomaco ancora prima di raggiungere l’ascensore.
“Che piano ci ha detto?” chiedo a Michi entrando.
“Il quarto.”
Mi tremano le gambe, ho un nodo in gola. Chiudo gli occhi e lui mi abbraccia.
Michi mi ha sempre fatto sentire al sicuro, sempre. Adoro quando mi avvolge con le sue braccia. È talmente bello che è impossibile non innamorarsi di lui, ma come dirlo? Lui preferisce i miei sandali di Jimmy Choo. E anche quelli di Valentino.
L’ascensore si apre di fronte a una porta satinata che ha inciso il nome dell’azienda in cui ho intenzione di fare carriera.
Mi sistemo i capelli, mi aggiusto la camicia dentro la gonna, e cerco conforto stringendomi al petto la cartellina dei disegni.
Michi mi cede il passo all’ingresso, entriamo e ci troviamo di fronte una ragazza seduta a una scrivania.
Ha i capelli raccolti in uno chignon, sembrano tra il biondo e il rossiccio, e indossa un paio di occhiali da Signorina Rottermeyer.
“Buongiorno sono Eva Galassi, ho un appuntamento con la titolare. Sono qui per il posto di designer accessori.”
Mi piace sentire questa sicurezza nella mia voce. Brava Eva, così si fa.
E mentre mi concedo un sorriso soddisfatta, la vedo borbottare.
“Eccone un’altra.”
Ho capito bene?
In effetti mi sta guardando con un’espressione che fatico a decifrare. Sembra annoiata, delusa. Forse si aspettava una versione femminile di un giovane e intraprendente Yves Saint Laurent, e io non gli assomiglio neanche di striscio. Ho giusto una delle sue camicie addosso, e a questo punto, vista la sua faccia, spero almeno che mi porti fortuna.
Forse hanno già scartato qualcuno prima di me, ma io sono io, e non me ne andrò da qui senza un contratto.
“La stanno aspettando, mi segua.” dice senza degnarmi di uno sguardo.
Michi si siede su una delle poltrone della sala d’aspetto, io lo saluto mandandogli un bacio.
La ragazza insoddisfatta mi fa strada lungo il corridoio, io le sto dietro cercando di sistemare il colletto della camicia portafortuna, di ripassare il mio discorso, e di non perdere la concentrazione.
“Eccoci arrivati”, mi dice sospirando prima di bussare alla porta per annunciarmi. “Eva Galassi è arrivata.”
Entro guardando il pavimento, poi alzo lo sguardo: la vedo, ma preferisco soffermarmi sui due grandi vasi di rose che le stanno accanto: uno a destra, l’altro a sinistra.
Prendo coraggio e la guardo negli occhi: Anna Molinari — in tutto il suo splendore.
E io non riesco a dire una parola.
“Prego si accomodi”, mi dice indicando la sedia che mi sta davanti. Mi siedo e le rivolgo un timido sorriso.
Decido di non perdere tempo, di cominciare con il mio cavallo di battaglia, come se fossimo ad ‘Amici’ e ci fosse la prova di assunzione. Abbasso la testa verso la cartellina, la apro e mi accorgo che il prototipo non c’è più. È sparito.
Mi hanno sabotato.
E mentre faccio mente locale per capire chi, nel mio film di spionaggio mentale, abbia voluto farmi fuori, un flash mi colpisce: vedo il tavolo della cucina, una tazza di caffè e il mio prototipo.
L’ho dimenticato a casa. Che stupida!
E se questo fosse un segno divino?
In effetti, non sarebbe stato elegante presentarsi a una signora con un paio di pantofole.
Quando i miei occhi tornano su Anna, mi accorgo che anche i suoi sono su di me: mi guarda in modo curioso, sembra quasi divertita.
Non so se considerarla una cosa positiva. Sistemo un disegno sul tavolo: devo fare una contromossa, ma appena inizio a illustrarlo, lei mi chiede: “Cos’è per te la moda?”
Il fatto che mi dia del tu sembra positivo, però non mi ha fatto una domanda da poco. Potrei dire tutto e niente.
E al momento, ho un piccolo vuoto di memoria… una voragine… il nulla cosmico.
E adesso? Cosa le racconto?
Poi, come per magia — o presumibilmente per istinto di sopravvivenza — le parole escono da sole: “la moda è ciò che segui quando non sai chi sei. È la personalità a combinare con coerenza spirito, gusto ed eleganza. Personalità e stile sono la stessa cosa se non hai paura di esprimerla attraverso ciò che indossi.”
“Mi stai dando del tu?”
“No, no ci mancherebbe! Era per fare un esempio”, dico alla svelta, gesticolando nervosamente.
Lei sorride divertita e continua: “Mi interessa la tua versione di stile… vai avanti.”
Cerco di elaborare velocemente un discorso, evitando la seconda persona singolare e scansare ogni equivoco di prendermi troppa confidenza:
“Le donne tendono ad ascoltare troppo il parere di chi le circonda; se si fidassero del loro istinto saprebbero valutare i consigli in maniera critica e non si limiterebbero ad accettarli passivamente.”
“Saresti perfetta per il mio ufficio stampa…”
Ufficio stampa? Io non sono venuta qui per l’ufficio stampa, io sono una designer.
“Davvero? Be’, io sono qui per quell’impiego nel reparto accessori…” puntualizzo timorosa.
Il boss continua a guardarmi con quello strano sorriso. Sembra il serpente nella teca che si diverte con la cavia prima di mangiarla.
Deglutisco e la osservo mentre legge il mio curriculum.
“Lo vedo…”
Voglio quel contratto, devo andare a segno: “Tutto ciò che appare rigidamente codificato può diventare arte, fantasia e novità.”
I suoi occhi si sollevano lentamente dai fogli e sono ancora su di me. Non devo fermarmi: “Un accessorio non è solo qualcosa con cui completare una combinazione. È un involucro prezioso scelto da corpo e anima. Non c’è spazio per la paura del giudizio e nemmeno per l’incoerenza.”
Tana. Arimortis. Stop.
Chiudo le palpebre, non so se per il sollievo di aver concluso il mio discorso, o per il timore di trovarmi di fronte alla sua reazione. Poi le riapro, ma lei mi guarda ha un’espressione che fatico a decifrare.

QUARTO EPISODIO

Illustrazione: Valeria Terranova